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mai interrotto delle antichità akragantine. Attendeva ora a tracciare, in una nuova opera, la topografia storica dell’antichissima città, col sussidio delle lunghe minuziose investigazioni sui luoghi, giacchè la sua Colimbètra si estendeva appunto dov’era prima il cuore della greca Akragante.
Presso una delle ampio finestre della seconda sala, guarnite di lievi tende rosee, era la scrivania massiccia, intagliata; ma don Ippolito componeva quasi sempre a memoria, passeggiando per le sale; architettava all’antica due, tre periodoni gravi di laonde e di conciossiachè, e poi andava a trascriverli su i grandi fogli preparati su la scrivania, spesso senza neppur sedere. Tenendosi con una mano sul mento la barba maestosa, che serbava tuttavia un ultimo vestigio, quasi un’aria del primo color biondo d’oro, egli, alto, aitante, bellissimo ancora, non ostante l’età e la calvizie, si fermava innanzi a questo o a quel monumento, e pareva che con gli occhi ceruli, limpidi, sotto le ciglia contratte, fosse intento a interpretare un’iscrizione o le figure simboliche d’un vaso arcaico. Talvolta anche gestiva o apriva a un lieve sorriso di soddisfazione le labbra perfette, giovanilmente fresche, se gli pareva d’aver trovato un argomento decisivo, vittorioso, contro i precedenti topografi.
Su la scrivania era quel giorno aperto un volume delle storie di Polibio, nel testo greco, Lib. IX, Cap. 27, alla pagina ov’è un accenno all’acropoli akragantina.
Un gravissimo problema travagliava da parecchi mesi don Ippolito circa alla destinazione di questa acropoli.
— Disturbo? — domandò, inchinandosi su la soglia di quella seconda sala, don Illuminato La-