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stesso verso, ci accosteremo di piú all’uso del tempo di quello che non faremmo dando assoluto predominio, per es., alla forma «onne», che potrebbe forse considerarsi piú propria dell’aretino.

Né la rima vale a farci riconoscere le forme autentiche, ché anzi spesso essa porta ad esagerazioni e licenze, che non possono esser considerate normali. Se, per es., accanto a «veggio», forma piú comune del presente di «vedere», la quale appare anche in rima, con «seggio» (X, 1), si trova la forma «veo», che piú particolarmente ricorre lá dove era richiesta dalla necessitá di rimare con «Deo, eo, creo, reo, ecc.», non possiamo da un lato dubitare che la forma «veo» non sia legittima, ma possiamo anche credere ch’essa non fosse la piú corrente. Comunque avremo anche da questo una conferma dell’uso promiscuo di forme diverse.

Quanto alla rima, non desidero addentrarmi nella questione della cosí detta rima aretina, rimandando a quanto ne dissero il Parodi e il Bertoni1, ma constato:-otti: -utti; -otto:-utto;-ono: -uno; -ona: -una; -ora: -ura; -oso: -uso; -oi: -ui; -ose: -use; -ere: -ire; -eve: -ive; -edi: -idi; -esce: -isce; -esa:-isa; -sto: -isto; -ento: -into; ecc. ecc. Ora si potrebbe certo arrivare ad accogliere «misora» per «misura» (XXV, 30), ma sarebbe mai possibile, per ristabilire la rima, che è sempre in -ura: «rancura: dura: pura: aventura: natura: bruttura: paura: ventura», modificare «tuttora» (XLIV, 31) che è dato da entrambi i mss.: A e B, in «tuttura» .2 Ben diverso è il caso di «ciascono, alcono, comono, ono, catono», che possono ammettersi senza sforzo: «alcon» è anche fuori di rima (XLIX, 28).

È inutile soffermarsi ancora: si deve ammettere la possibilitá di rimare -ono: -uno; -oso: -uso; -ere: -ire; -edi: -idi; ecc. ecc.

Per la grafia ho un poco dubitato se non fossero da accogliere grafie speciali rivelatrici di una peculiaritá fonetica, come, ad es., «rasgiona, presgio, relesgione, malvasgio, ecc.». E forse piú vicina ancora alla pronuncia sarebbe la rara grafia che, come «disprescia» (XXV, 55) ci è data eccezionalmente dal ms. A, del quale è proprio «sg», di contro al «g» di B e alla «s» di C. (Per es., al v. 21 della canzone VIII troviamo: A: casgione; B: cagione; C: casone). Ma che forse la grafia moderna impedisce anche oggi

  1. E. G. Parodi, Rima siciliana, rima aretina e bolognese, nel Bull. d. Soc. Dantesca, N. S., XX, p. 133 sgg.; e G. Bertoni, nell’Arch. romanicum XI, 581 sgg.
  2. In questa stessa canz. troviamo «possedere» e «avere» in rima con altre sette parole in «ire» e viceversa «dire» in rima con altre dieci in «ere».