medesimi; e che le voci antiquate che ho riportate mi hanno fatto buon giuoco per ispiegare certe mutazioni foniche e linguistiche, senza ricorrere al latino. Restano le forme poetiche. La nostra lingua, cominciando da Dante e venendo fino ai moderni, abbonda di voci e maniere riserbate alla poesia, tantochè si possa dire aver questa quasi un idioma poetico a parte; e ciò primieramente per la ragione della rima (poichè convengo anch’io che molte delle voci poetiche qui registrate non le userei fuor di rima), e in secondo luogo perchè se la lingua stessa della prosa si è conservata come dicemmo, assai conforme all’uso de’ nostri classici, ciò doveva maggiormente accadere per quella della poesia, che è soggetta più della prima all’arbitrio degli scrittori. Io pertanto non poteva rigettare questa parte di lingua che rientra anch’essa nell’uso moderno degli scrittori stessi, se non nel caso che anch’io, seguendo il parere di alcuni critici novellini, la condannassi come un ingombro, una difficoltà, una vana pompa rettorica della quale fosse utile spogliare la nostra poesia. Ma essendochè, anzi, io la reputi un ornamento, una ricchezza, una perfezione; essendochè mi paia un bel pregio del nostro idioma il poter distinguere anche nella forma di molte parole la poesia dalla prosa (pregio comune al greco, al latino e chi sa a quante altre lingue); così io doveva accoglierla e non lasciarmi