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xiv | prefazione |
il latino colla caduta dell’Impero Occidentale, lo stesso volgare romano, già diffuso in Italia e in Europa, essendo in varii modi pronunziato e su diversi tronchi innestato, si differenziò vagamente nelle favelle dette romane, francese, provenzale, spagnuola, portoghese, italiana e valacca.1 Come si formassero e si coltivassero per mezzo della letteratura tali favelle, sarebbe lungo a dire. Fra un gruppo di dialetti e vernacoli somiglianti, tutte varietà del volgare detto di sopra, ce ne fu in ciascuna nazione o parte di nazione, uno, che a poco a poco divenne lingua letteraria e trionfò degli altri. Rozzo anch’esso e povero da principio come la civiltà di quei popoli, male determinato e troppo esuberante di forme grammaticali, ricevette dagli scrittori aumento di voci e regole più determinate, per le quali cose valse principalmente l’esempio dell’idioma latino, di quello che, per quanto dicemmo, potea chiamarsi il maggior fratello di queste nuove lingue. Poichè il latino, prima nei libri della Chiesa, poscia nelle opere stesse dei Classici, stava loro a lato, ed era considerato come il fondamento d’ogni coltura.2
In Italia, e non è questo il luogo da dirne le ragioni, fu il parlare toscano, e segnatamente quello di Firenze, che a poco a poco escluse dall’uso letterario gli altri dialetti d’Italia; e divenne esso stesso lingua nazionale italiana. Anch’esso,