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prefazione. cci

chè il pubblico s’interessava ancora alla commedia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano conformi al vero, l’uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura e l’altro il popolo nelle sue credulità e ne’ suoi stupori.1» Se non che questa larghezza di pensiero non era propria della critica letteraria italiana contemporanea del Gozzi, o immediatamente a lui succeduta, e fino al Foscolo. Essa non dava alcuna importanza alle tradizioni raccolte da Carlo Gozzi; avea in orrore il fantastico ed il meraviglioso; nulla potea farle vincere il fastidio di quella certa sua goffaggine di lingua e di stile, nella quale cascò troppo spesso. Ciò non toglie che in Carlo Gozzi non sia giusto riconoscere un ingegno vivissimo, una grande abilità teatrale, una vena straricca d’ironia, di stravaganza e di satira, una libertà ed un’audacia di forme, meritevole anche oggi di ammirazione e di studio. Che se negli abbozzi frettolosi delle sue Fiabe non si riscontra, come nello Shakespeare, una compiuta fusione del fantastico col vero, del soprannaturale col reale, egli è che a lui difettò alquanto l’arte di unire i materiali, che non inventava del tutto, bensì raccoglieva qua e là; egli è che nelle sue Fiabe prevale non già il fantastico, bensì il meraviglioso, lo spettacoloso anzi, che dal

  1. De Sanctis, Storia della Lett. Ital. Vol. II.