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4 | l'altare del passato |
Se chiudo gli occhi rivedo la vasta sala da pranzo, rivedo in un mezz’ombra alla Rembrandt le varie figure. La marchesa Amalia, vedova e mamma del mio amico, la zia Ernesta, muta e spettrale, lo zio prete gesuitico e goffo, lo zio Capitano goffo ed arrogante.
E fra tutti la bella figura — l’unica simpatica — del conte Fiorenzo, il signor papà: un bell’uomo dalla persona ancor agile e svelta, dalla folta chioma d’argento, dal profilo perfetto di vecchio Lord Byron decaduto....
Egli — comprendo oggi — era uno spirito colto, infinitamente superiore ai suoi figli; a quei due mediocri campioni della chiesa e dell’esercito, a quella zitella idiota, a quella vedova arcigna ed irascibile. Doveva essere stato il giovane sentimentale e romantico, l’intellettuale dei suoi tempi, nutrito di Byron e di Lamartine, d’Alfieri e d’Aleardi.... ricordo certe discussioni coi figli, ho impresse nella memoria intere sue frasi.
“.... ancora una volta: l’Alfieri va esaltato non fosse che per una cosa sola: aver trovata metastasiana l’Italia e averla lasciata alfieriana!...„
E rivedo la sua mano alzata, mano pallida e perfetta di patrizio, dall’indice adorno di un grosso cammeo, la bella testa candida sfavil-