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d’altro che mi disse, avrebbe dovuto rassegnar la commedia al Magistrato con i suoi dubbi. Può immaginarsi V. E. che impressione nell’animo mio possa aver fatto un simile ragionamento dopo tante impertinenze sofferte; tutta volta ho voluto lasciarmi reggere dalla ragione e soffocar l’amor proprio». Questo per non perdere la commedia affatto e per offrire un esempio di docilità. «So — continua la lettera — che nel Plauto dell’abate Chiari sono preso per mano. L’ho detto all’Agazzi; ed ei promette che non sarà così. Lo vedremo, e certo certo, se sarà altrimenti, andrò io in persona a querelarmi dell’ingiustizia a tutti i Tribunali che ponno essere competenti. Non dicano ch’io sia l’uomo perfido, ma nemmeno il vile. Ho piacere ora d’aver fatto così. La commedia non si perderà per questo. Cambierò quell’episodio che feriva il Chiari in un altro ridicolo che non sarà fuor di proposito; e basta che la commedia si faccia dentro l’autunno, perchè sia l’argomento suo alla stagione adattato» (Carteggio Mantovani, pp. 72-74). Il Plauto, composto nel maggio del 1755 e recitato nell’agosto con scarsa fortuna a Milano, non serba nella stampa allusione alcuna al Goldoni. I Malcontenti, recitati a Verona in quell’istessa estate e «andati malissimo» (Mantovani, op. cit., p. 69) dovevano inaugurare la nuova stagione al S. Luca o recitarsi subito dopo la Buona famiglia (ibid., pp. 72, 74). Se non si fece, ciò non fu per le ragioni dette nella Premessa, ma per il veto posto dalla censura, alla quale non parvero forse sufficenti le modificazioni fatte o proposte dall’autore, come si sa da una lettera del Vendramin al Goldoni: «Fu impedita in altro tempo la recita de’ Malcontenti, ma non per la commedia, ma solo per le circostanze de’ tempi, e per la divisione del popolo in due fazioni a Lei ben note» (ibid., p. 78, 79; lett. del 30 dic. 1758).

Nella commedia la satira della maniera chiaresca resta evidente. «Goldoni aveva facilmente sorpreso — osserva argutamente l’Ortolani — il segreto di quella potenza poetica» (op. cit., p. 82). Al modo, onde la potenza poetica dell’abate bresciano è posta in dileggio, dan lode il Sommi- Picenardi («finissima satira» Un rivale del Goldoni, Milano, 1902, p. 55), il Caprin («caricatura lepidissima» C. G., la sua vita, le sue opere, Milano, Treves, 1907, p. 151), l’Oliva («amabile caricatura» C. G., Giornale d’Italia, 24 febb. 1907), U. Ferrari-Bravo e A. Marconi («satira... forte» C. G. educatore, Firenze, 1907, p. 70), la Marchini-Capasso che in Grisologo scorge il prototipo dei poeti teatrali combattuti dalla riforma goldoniana (G. e la commedia dell’arte, Bergamo, 1907, p. 190). Sottolinea il Brognoligo le «argutississime parole» messe in bocca al novissimo poeta: «Unisco il tragico e il comico insieme, e quando scrivo in versi mi abbandono interamente al furore poetico, senza ascoltar la natura che con soverchi scrupoli viene da altri ubbidita», parole con le quali Goldoni ferisce per celia se stesso (Nel teatro di C. G., Napoli, 1907, p. 44). Alla satira letteraria aggiunge interesse il nome di Shakespeare, del quale si vale il Goldoni per far apparire più insulsa l’opera del misero poetucolo. Sorge spontanea la domanda se e quanto n’abbia conosciuto il Teatro, e per avventura quale influsso possa aver esercitato sul suo l’opera di quel «gran poeta e tragico politico» (Filosofo inglese, a. IV, se. IV). Ne lesse forse la prima volta il nome nella biblioteca del professor Lauzio di Pavia, dove, secondo il fantasioso ottuagenario poeta, il giovinetto sedicenne sul punto d’entrare nel Collegio Ghislieri impiegava tanto nobilmente l’attesa dei documenti necessari?