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sono una derivazione» dell’antico. «Quello dell’eunuco Damone è originalissimo ». Trovò per contro certa «sentimentalità un po’ preziosa» nel carattere del protagonista, e negli amori «un poco del moderno marivaudage». Per amore della verità storica, l’autore cade «talora in minuzie erudite e noiose». «Il G. scriveva male, ma con un’adorabile schiettezza e semplicità. Nel Terenzio invece gli scappano dizioni, metafore, esagerazioni degne dell’abate Chiari». La commedia non ha resistito al tempo: «non resiste nè alla rappresentazione, nè alla lettura».

Giudicò meno severamente, non direi più giustamente, Valentino Carrera: «Nel Ter., quando G. è padrone e donno di sé e si trova nella sua beva, getta a piene mani l’impreveduto, il brio, la vita, la giovinezza disinvolta e gioconda, ma appena si tratta di colorito del tempo, appena si tratta di lumeggiarvi cogli splendori dello stile la poesia della favola ed i costumi romani, ohimè, non sa più a qual santo raccomandarsi e finisce per pigliare la peggio, ma la più comoda delle scappatoie, la rettorica e che rettorica!» (C. G. a Torino, Tor. 1886, p. 27). Unico e solo a lodar tutto restò G. C. Molineri, che proclamò questa una delle cose migliori del Goldoni «nel genere che ha attinenza colla storia, e nella quale l’intento di critica e di apologia personale non toglie nulla alla vivacità dell’invenzione e del dialogo» (Storia della lett. ital., t. III, Torino ecc., 1898, p. 164).

Liberati da un tal guazzabuglio, è tempo ormai di concludere. — Come già innanzi nel Moliere, come subito dopo nel Tasso, ci trasporta il Goldoni in un mondo fittizio (poco ci importerebbe la infedeltà storica!), dove non fa muovere degli uomini veri, ma dei manichini. C'è anche nel Terenzio dell’abilità nell’invenzione e nella sceneggiatura, quanta bastava a salvare dal vicino naufragio la commedia: abilità di scrittore di teatro, che Goldoni possedette, sia per natura, sia per esperienza, in sommo grado. C'è inoltre, come nelle due composizioni ricordate, più di un’allusione ai casi stessi dell’autore (v. il critico della Persev. e Molineri), che commovevano il pubblico. C'è finalmente, come nel Tasso, come nelle tragicommedie del Chiari, del rimbombo frugoniano (v., per es., la sc. 6.a dell’ult. atto), che tanto serviva alla declamazione ed esaltava il pubblico del Settecento. Ahi, sciaguratissimi martelliani! Pur troppo il Terenzio non ha del Moliere e del Tasso la meccanica vivacità, che può anche scambiarsi per la vita; e movendosi lento e monotono, riuscì noioso ai posteri. Di qui le sorti diverse. S’aggiunga poi, se si voglia, il costume romano, insolito alla commedia moderna.

La lettera di dedica mette questa volta da vicino l’autore del Regolo e quello dei Rusteghi, i due maggiori rappresentanti dell’arte letteraria in Italia nei primi sei decenni del Settecento, considerati nel secolo seguente come precursori e annunziatori del rinnovamento delle nostre lettere: Pietro Metastasio, signore del melodramma, che invero apparisce nel breve periodo dalla morte di Pope al sorgere del Klopstock, come il solo poeta in Europa, e fu di gran lunga, mentre visse, il più popolare; Carlo Goldoni, creatore della commedia moderna italiana, uno dei più fecondi e spontanei e vivi scrittori di teatro in tutti i tempi. Sincera crediamo la reciproca ammirazione dei due grandi, che mai non s’incontrarono nella lunga vita, ma lasciarono indubbi segni di inclinazione e di stima. Del Goldoni ricorderemo come fin dal 1730, a Feltre,