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Ha S. E. tale un’aria di parentela con l’anonimo poeta martelliano da parer, più che due fratelli, una persona sola. Per si fatte critiche non so se dolesse l’animo al Goldoni: egli parve sempre contento del Terenzio, commedia erudita che lo faceva crescer nella stima dei letterati; e l’anno dopo ricordava non senza compiacimento la visita e i rallegramenti del nobiluomo Marcantonio Zorzi, la sera della prima recita (v. dedica dei Pettegolezzi delle donne, vol. VI della presente ed., p. 428). Non deve poi esser taciuto che il Goldoni nelle memorie francesi consacrò a questa composizione un larghissimo riassunto in un intero capitolo (Mém.es, P. II, ch. 25): ma non è niente affatto vero il racconto che il Terenzio fosse scritto per ingraziarsi i Bolognesi, seanche a Bologna fu rappresentato, come pare, dalla compagnia del teatro di S. Luca nella primavera del ’55 (v. Ricci, I teatri di Bol. ecc., Bol., 1888, p. 471). — Convien credere che la dotta città applaudisse con entusiasmo l’erudizione romana del lettore di Pitisco: i posteri invece non se ne contentarono. Si ha indizio d’una recita a Modena nel 1757 (Modena a C. G., Mod. 1907, p. 237), poi più nulla. Invano Stefano Sciugliaga, di Ragusa, che a Venezia commerciava di vino e sfoggiava in difesa del teatro goldoniano una mal digerita dottrina, aveva celebrato in un Congresso di Parnaso (1754: rist.o nelle Censure miscellanee, 1755) il «famoso» Terenzio «con felicità concepito e con felicità condotto»: lo scenario romano non allettò il pubblico nemmeno quando tutta Italia diventò repubblicana e democratica sulla fine del Settecento, o quando Napoleone sognò l’impero d’Augusto e fu cantato novello Giove.
Per questo conto il Terenzio fu molto men fortunato del Moliere e del Torquato Tasso. Di una recita a Firenze (teatro Alfieri) ai 28 luglio 1830, da parte della Società Filodrammatica, si trova cenno nei Teatri (Giorn. drammat.o, Milano, 1830, P. 2. a, p. 496): dove accanto ai nomi degli attori leggesi con lode quello del m.o Pelleschi, che musicò «la scena dell’emancipazione». Molti anni dopo, nel ’74, il capocomico Angelo Moro-Lin tentò di esumare la dimenticata commedia, ma la prova fallì. «Il Terenzio di G. non piacque nè a Torino, nè a Milano: il pubblico si è annoiato, mortalmente annoiato, e ne ha avute le sue buone ragioni»: scriveva il critico della Perseveranza (Milano, I ott. 1874). A ottener l’indulgenza del pubblico non valse un prologo martelliano del Moro-Lin, come sembra, che ripete in parte quello preposto dall’autore alla commedia. Ricorderemo infine che nella memorabile sera dei 26 febbr. 1875 in cui il teatro Apollo, a Venezia, già detto di S. Salvatore o di S. Luca, assunse il nome di Goldoni, fu sonato un inno scritto dal m.o Lauro Rossi per la scena finale del Terenzio (Gazzella di Ven., 27 febbr. 1875).
Che il Goethe lodasse la commedia, come fu affermato da G. Bertoni (Modena a Q., 1907, p. 416) non è vero (così mi comunica gentilmente il Maddalena). Carlo Gozzi la poneva in fascio col Filosofo inglese, col Moliere, col Tasso, con altre del Chiari, dichiarandole tutte noiose (Memorie inutili, P. II, Ven. 1797, p. 3). il giovane Luigi Carrer si lagnò di non trovarvi di romano che i nomi dei personaggi (Vita di C. G., Ven. 1824, I 124 e II 112). Anche Ignazio Ciampi credette scorgere nella Roma goldoniana «il costume del Settecento» quale si trova nel Metastasio: «non può» tuttavia «negarsi»