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NOTA STORICA
Certo. Anche senza una sola idea in testa C. G. poteva mettersi a tavolino, scrivere sul paziente foglio Atto I, Scena I, Florindo e Rosaura, tirar via di scena in scena, d’atto in atto, e giungere così alla comoda parola fine. Lo racconta egli stesso nelle Memorie (P. II, c. XI) e della docile sua fantasia si compiace. Poteva certo. E una volta fece proprio così. Ma la commedia che gli uscì allora dalla penna fu quest’Incognita, dove pur chi non sia accecato da passione come il Baretti, o maligno quanto Carlo Gozzi, nulla trova da lodare. Nulla che risponda a ragioni d’arte. Si potrà al più far merito all’a. della facilità onde scena si concatena a scena, episodio a episodio. Semplice e breve l’antefatto; tutto il resto viva azione, che malgrado il complicarsi de’ casi si svolge senza fatica o tedio dello spettatore. Tolti gl’indispensabili predicozzi del buon Pantalone, e qualche confidenza del poeta alla platea in veste di soliloquio (deliziosamente ingenuo quello dove per bocca di Colombina [A. I. sc. I] egli minutamente enumera i mille incidenti imaginati dalla ferace sua fantasia) — i dialoghi corrono agili e spediti. La commedia, valutata sempre per quel che è, riesce oggi ancora a farsi leggere con minor noia d’altre goldoniane d’assai maggior pregio. Offerta in un’arena a un pubblico domenicale, avido di colpi di scena, con l’innocente perseguitato e il malvagio punito, potrebbe, chi sa, reggersi ancora. Anche la morale — e pur questa piace o piaceva al popolino — vi è sempre rispettata. Perchè tutte queste incognite, avventuriere e pellegrine del Goldoni e del Chiari non invocano mai invano, nei cimenti più scabrosi, i numi o gli dei. Non s’arriva talvolta a scorgerne il modo, ma la pudicizia (Inc., a. III sc. IV: Colombina La mia pudicizia!) è sempre salva. Persino la moglie d’Ottavio (una delle tante Beatrici goldoniane indegne di tanto nome) in un suo sermoncino sente il bisogno d’assicurare il pubblico che nè amore disperato per Florindo, nè la sua matta gelosia ebbero mai ragione della sua onestà.
Curioso centone questo, dove, si direbbe, ricordi dei drammi spagnoleschi di Andrea Cicognini si fondono con la commedia d’avventura del teatro estemporaneo. Per questo vi sono accolte anche le maschere. Ma Pantalone più che mai alle prese con quel suo dissoluto di Lelio, che appena sessanta soldati, quaranta birri e un tenente arrivano a domare (Capitan Spavento a’ suoi bei dì fu men terribile), vi sta un po’ a disagio e piagnucola più del solito. In tanto imperversare di casi non si ritrova neanche Arlecchino ed è — ha ra-