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ne fece una creazione nuova, più gentile e più vera, le infuse per sempre la vita che nel romanzo quasi più non si trova. Fin dalle prime scene l’illusione del Settecento ci avvolge con una sensazione di freschezza sull’anima: le lacrime di Pamela sembremo bagnare la nostra mano: il mondo poetico è fatto, per potenza d’arte, reale. Sobria la fantasia. L’autore, sfuggendo al pericolo di chi attinge a un romanzo, chiuse con armonia classica l’azione nelle leggi dell’unità di tempo e di luogo, e per la prima volta nel suo teatro, come se volesse compiere opera letteraria, sbandì del tutto le maschere e il dialetto.

Fu un vero trionfo. Nell’ed. Bettinelli un’avvertenza, forse del Medebach, dice: «Questa commedia fu applauditissima, e furono ricercate le repliche in ogni luogo dove si portò la Compagnia. In Venezia fra l’Autunno e il Carnovale del 1750 fu replicata diciotto sere, e prima nell’Estate si fece per la prima volta in Milano.» Le principali edizioni goldoniane affermano invece, nell’intest, della commedia, che la Pamela fu recitata primieramente a Mantova, e a Mantova almeno fu scritta. I Veneziani la udirono sulla fine del novembre, per quanto si legge nei diari del Gradenigo: «28 Novembre [1750]. Commedia nuova nel Teatro di S. Angelo, intitolata la Pamella, o sia la Virtù premiata» (Notatorio I: presso il Museo Civico di Venezia). Teodora Medebach, l’interprete di Bettina (la Putta onorata) potè questa volta godere gli onori più grandi (v. anche Mém.es, II, c. 16Memorie di Carlo Goldoni). L’entusiasmo popolare giunse a tal segno, che un merciaio, chiamato Domenico Fanello, il quale aveva bottega sul ponte dei Baretteri, partigiano ardente di Goldoni, pensò di esporre per insegna la Pamela; e gli restò affibbiato il ridicolo soprannome (v. sonetti satirici di G. Baffo, in cod. Cicogna 2395, già 1882, nel Museo Civico Correr di Venezia). Un altro ammiratore, il N. H. Alvise Foscarini, mentre ricordava in una epistola martelliana la «sì deliziosa - Pamela, che in Italia fece tanto romore», non esitava di affermare «che sola basterebbe per dar nome all’Autore». (e. s.) Persino i giornali di erudizione parvero accorgersi che sul teatro italiano qualche cosa sorgeva e viveva. Le Novelle della Rep.a letteraria, appena la commedia uscì a stampa, lodarono sinceramente «l’arte fina del fingere, del dilettare insieme e dell’istruire, che appare nel principio, nel mezzo e nel fine» (Ven., 1753, n. 24); e la Storia letteraria d’Italia del p. Zaccaria così riferiva: «La Pamela è più a tragicommedia somigliante, che a commedia, ma gli affetti vi son trattati con molta forza e con rara delicatezza» (t. VII, Mod., 1755). Solo un anonimo, in certa Lettera ad un amico inedita e senza indicazione di luogo e di tempo, stentava a credere che l’autore avesse «appreso dal Libro del Mondo» «il vero ritratto di questa virtuosa Pamela», trovava madama Jevre sboccata, insoffribile il carattere del conte d’Auspingh, la «dizione talvolta umile troppo ed abbietta», e se concedeva a Goldoni un posto nel «secondo genere di commedie, dette volgarmente istrionate», non gli permetteva di decorarsi del «fastoso nome di Riformatore del Teatro Comico in Italia» (cod. cit.).

Ma ecco intanto la villanella di Richardson, ingentilito il sangue col riconoscimento della nobiltà paterna, e perduta sotto il cielo di Venezia la timidezza rustica, passò di nuovo le Alpi, per sedurre altri cuori con la soavità dei modi. Nel 1756 si stampò a Londra la traduzione inglese col testo italiano a fronte (Spinelli, Bib.ia gold.) e a Danzica la prima traduzione tedesca. Altre edizioni