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NOTA STORICA
Salutiamo la primavera del teatro comico italiano de’ tempi nuovi! Nel carnovale del 1743, dopo due anni di laborioso silenzio, succedutisi fra le cure del consolato, C. Goldoni leggeva agli attori del S. Samuele la Donna di garbo. Più che per essere scritta, fin da principio, per intero; più che per essere stampata, nelle più antiche edizioni, in testa a tutte le altre; più che per essere chiamata dall’autore la primogenita e la prediletta, c’importa questa commedia per l’arte sua viva, schiettamente goldoniana, schiettamente italiana. È come un trionfo del Settecento: dove la donna impera con sue armi infallibili, riempie di arguti passi e di argute risa la scena, riconosce e grida la propria vittoria contro «tutto l’orgoglioso sesso virile» e contro i pregiudizi del passato: non più Colombina, non dama folletto, non serva padrona, ma donna. Se dello scenario rimane ancora troppo e se l’antica Colombina ricomparisce più di una volta nel visetto un po’ artificioso di Rosaura, la vita ormai scorre e il prodigio è compiuto.
Nella Donna di garbo si mescolano elementi assai diversi, tradizionali e originali, vecchi e recenti, letterari e popolari. L’autore stesso nelle memorie italiane (pref. t. XVII Pasquali) e nelle francesi (P. Ie, ch. XLIII) ci insegna con quale accorgimento cercò di rendere apparenza di novità e verità a un tema sul teatro e nella novella già frusto; tuttavia chi volesse, potrebbe, sulla traccia del Goldoni, risalire in Francia a Colombine, femme vengèe (di Fatouville, 1689) o alla Dame invisible (ou l’Esprit follet, di Hauteroche, 1684), all’Inconnue (di Boisrobert, 1646) o all’Esprit follet (di D’Ouville, 1641), e in Ispagna alla Dama duende (di Calderon) o a Don Gil de las calzas verdes (di Tirso de Molina): meglio poi, per l’ultima scena, a Colombine avocat pour et contre (di Fatouville, 1685: inoltre vedi Rasi, I comici it.i, II, ai nomi Veronese). Nessuna imitazione; si confuse reminiscenze del Seicento, che a Goldoni giunsero attraverso il teatro dell’arte. Affinità maggiore si scopre tra il Lelio goldoniano e Vanesio, il cicisbeo di G. B. Fagiuoli: personaggio familiare già prima alla commedia letteraria. Sappiamo infatti che il Cicisbeo sconsolato (ed. a Cremona, 1724; e due volte a Ven., 1727), uscito da’ colli di Toscana, si recitava su’ teatri pubblici, a soggetto (v. indietro, p. 103): e di qui venne pure l’ingenua Diana, ricalcata in parte sulla Isabella. Più goldoniano è Ottavio, il giocatore di lotto che la satira del Settecento assaliva: gioconda caricatura di fronte a’ Pancrazi e alle Serpille pseudo-classici del marchese Ferdinando Obizzi (di Padova: la Cabala, 1741). Fra le maschere, che palavano certamente il proprio dialetto e probabilmente a braccia, manca il gran Truffaldin (Sacchi, partito per la Russia), ma c’è invece l’Arlecchino Falchi: manca Pantalone, ma c’è di nuovo Momolo, il giovane veneziano (credo ancora il Collinetti). — Pare che il Rutzvanscad di Z. Vallaresso usurpasse nelle ultime sere del carnovale 1743 il posto assegnato alla recita della Donna di garbo. Nel maggio morì Colombina Bacchenni, la gaia servetta fiorentina, per la quale era stata scritta la commedia; e poco dopo Goldoni dovette abbandonare Venezia. Non si sa bene, dove e quando la rappresentasse per la prima volta Marta Bastona, poichè le date che l’autore segnò nelle varie edizioni troppo discordano. Solo nel ’47, a Livorno, ammirò il commediografo la bella creazione (Mèm., P. Ie, ch. LII); e poi a Venezia, nell’autunno