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capitolo iii | 153 |
della platea. Ma manifestatomi appena per autore, inventore e poeta, si svegliarono dal loro letargo gli spiriti, e mi credettero degno delle loro critiche, della loro attenzione. I miei compatriotti, abituati da tanto tempo alle farse triviali ed abbiette, e alle rappresentazioni gigantesche, divennero a un tratto censori austeri delle mie produzioni facendo risuonar nei circoli i nomi di Aristotele, d’Orazio, e del Castelvetro. Le mie opere erano divenute la gazzetta del giorno. Veramente potrei dispensarmi dal rammentare oggi quelle verbali controversie che erano allora disperse dal vento e soffocate dal grido de’ miei ottimi successi; ma ho avuto caro di farne menzione a fine di avvertire i lettori della mia maniera di pensare relativamente ai precetti della commedia, ed al metodo propostomi nell’esecuzione. Le unità richieste per la perfezione delle opere teatrali furono in ogni tempo soggetto di discussione fra gli autori e dilettanti. Riguardo all’unità dell’azione e a quella del tempo, nulla avean da rimproverarmi i critici delle mie commedie di carattere; pretendevano bensì che avessi mancato solamente all’unità del luogo. L’azione delle mie commedie però succedeva sempre nella città medesima, e i personaggi non uscivano mai da essa; scorrevano, è vero, diversi luoghi, ma costantemente dentro la cerchia delle stesse mura: credetti perciò, come tuttora credo, che così l’unità di luogo fosse mantenuta bastantemente. In tutte le arti, in tutte le scoperte, l’esperienza ha preceduto sempre i precetti; e benchè in seguito gli scrittori abbiano assegnato un metodo pratico per l’invenzione, i moderni autori non han per questo perduto il diritto d’interpretare gli antichi. In quanto a me, non trovavo nella Poetica di Aristotele, nè in quella d’Orazio, il precetto chiaro, assoluto, e ragionato della rigorosa unità di luogo; mi sono nulladimeno fatto sempre un piacere di sottoporvi il mio soggetto, tutte le volte che l’ho creduto opportuno, non sacrificando però mai una commedia che potesse esser buona, a un pregiudizio, mediante il quale si fosse resa cattiva. Gl’Italiani non sarebbero stati contro di me tanto rigidi, e molto meno per le mie prime produzioni, se non fossero stati provocati dal mal inteso zelo de’ miei fautori. Questi innalzavano ad un grado troppo sublime il merito delle mie composizioni, onde la gente culta ed istruita altro non condannava che il fanatismo.
Presero sempre più calore le controversie riguardo alla mia ultima composizione. I miei atleti sostenevano che la Putta onorata fosse una commedia senza difetti, e i rigoristi trovavano male scelto il protagonista.
Chiedo scusa ai lettori se oso servirmi di una parola greca, che deve esser cognita bensì, ma non molto usata. Infatti questo termine non si trova in alcun dizionario francese od italiano. Frattanto alcuni celebri autori della mia nazione se ne son serviti, e comunemente se ne servono. Il Castelvetro, il Crescimbeni, il Gravina, il Quadrio, il Muratori, il Maffei, il Metastasio, e molti altri hanno adottato il termine protagonista per esprimere il soggetto principale del dramma; vedrete adunque l’utilità di questo grecismo, che racchiude in sè stesso il valore di cinque parole, onde domando il permesso di farne uso ancor io, per evitar così la monotonia di una frase che nel corso della mia opera potrebbe divenir noiosa. Avevo dunque mal scelto il carattere del protagonista, perchè non l’avevo desunto nè dalla classe dei viziosi, nè da quella dei ridicoli. Anzi la Putta onorata era un soggetto virtuoso, non meno che piacevole per i suoi costumi, per la sua dolcezza e per la sua