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dell’impero romano cap. xxxi. 143

Tribù, o nelle cento novanta tre centurie di Roma. Ma quando i prodighi plebei ebbero imprudentemente alienato non solamente l’uso, ma anche la proprietà del potere, si ridussero nel regno dei Cesari ad una vile e miserabil plebaglia, che in poche generazioni avrebbe dovuto del tutto estinguersi, se non si fosse continuamente sostenuta dalla manumissione degli schiavi e dal ribocco degli stranieri. Fino dai tempi d’Adriano, giustamente dolevansi gl’ingenui nativi, che la capitale aveva tirato a se i vizi dell’Universo, ed i costumi delle nazioni fra lor più contrarie. L’intemperanza dei Galli, l’astuzia e la leggerezza dei Greci, la selvaggia ostinazione degli Egizj e degli Ebrei, il servile carattere degli Asiatici, e la dissoluta ed effeminata prostituzione dei Sirj, s’erano mescolate nella varia moltitudine di uomini, che, sotto la superba e falsa denominazione di Romani, ardivano di sprezzare i loro compagni di sudditanza, e fino i loro Sovrani, che abitavano fuori del recinto dell’eterna città1. Ciò non ostante si pronunziava sempre con rispetto il nome di quella città; eran tollerati senza castigo i frequenti e capricciosi tumulti dei suoi abitatori; ed i successori di Costantino, invece di togliere affatto

  1. Vedi terza satira v. 60-125 di Giovenale, che deplora con isdegno,

    ....Quamvis quota portio faecis Achaeae?
    Jampridem Syrus in Tiberim defluxit Orantes;
    Et linguam et mores etc.

    Seneca proponendosi di consolare la propria madre (Consol. ad Helv. c. 6.) colla riflessione che una gran parte dell’uman genere si trovava in uno stato d’esilio, le rammenta quanto pochi fra gli abitanti di Roma fossero nati nella città.