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27 ARCHESTRATO 28

Anche il vin lodo, che si nasce in Biblo,
Città vetusta di Fenicia santa,
Ma a quel di Lesbo pareggiar nol posso.
È ver che, a bere del biblin, se pria
Uso non sei, nel punto che lo gusti
Più del lesbio parratti odor spirante,
Soave odor, che da vecchiezza prende:
Ma bevendolo poi vedrai che molto
Quello di Lesbo il vin di Biblo vince,
Parendoti destar non già di vino
Ma d’ambrosia il sapor l’odore e il gusto:
Che se qualche ciarlon tronfio cavilla,

Cianciando del fenicio, come fosse
Di tutti il più soave, io non lo curo.
Il Tasio ancora è generoso a bersi
Quando conta dell’altro età più lunga
Per molte belle primavere. Al pari
D’altre cittadi ricordar le viti
Uve stillanti ed inalzar saprei
Anche con lode, che i lor nomi ignoti
A me non son. Ma, a schietto dir, non puossi
Altro vin comparare a quel di Lesbo.
Sonvi di quelli poi ch’hanno vaghezza
Lodar le cose delle lor contrade57.



NOTE


(1) Questo poema di Archestrato è stato sotto varii nomi ricordato. Alcuni l’han chiamato Ἡδυπαθεία, che significa della voluttà; altri Δειπνολογία, o sia sulla cena; altri Ὀψοποιία, cioè a dire sull’apparecchio delle vivande; ma tutti questi titoli furono più presto per ischerzo dati al poema. Il vero nome, seconde Licofrone, era Γαστρολογία, discorso sul ventricolo. Ma Ateneo, e tutti gli altri per lo più lo citano sotto il nome di Γαστρονομία, o sia leggi della ventraja, e con questo, che è più comune, lo rapportiamo anche noi.

(2) Il primo verso è quello stesso con cui Archestrato dà principio al suo poema giusta la testimonianza di Ateneo lib. I, cap. 4 pag. 5. Il secondo è stato supplito dal Casaubono, il quale ridusse in metro alcune parole, che riferisce Ateneo lib. 7, cap. 8, pag. 278, come ricavate dal principio del poema di Archestrato. Però è giusto che si sappia il primo verso essere d’Archestrato il secondo di Casaubono, ma composto probabilmente cole parole dello stesso Archestrato.

(3) Il secondo frammento è rapportato da Ateneo lib. 1, cap. 4, p. 5.

(4) Questi versi leggonsi presso Ateneo, lib. 3, cap. 28, pag. 112. Lungo sarebbe il riferire tutte le varie maniere di pane, ch’erano in uso presso

i Greci. Si distinguevano non solo per la materia di cui eran fatti, ma ancora pel modo come eran cotta o nel forno, o nelle teglie, o sulle brage o nella cenere calda. Vi aveano focacce, che preparavano con olio e untumi o col miele, ed anche pani molli, in cui mettevano un poco il latte, di olio, o di altro grasso, o pure uno spruzzo di vino, e del pepe e del latte; nè mancavano de’ biscotti. Giungevano i Greci a cangiare più sorti di pane ne’ diversi serviti, affinchè meglio si eccitasse l’appetito. Archestrato cita solamente in questo frammento il pane d’orzo, quello d’orzo e di farro, l’altro di fior di farina, e fa menzione del pane agoreo degli Ateniesi, detto così perchè si vendea nella piazza, il quale era eccellente a’ suoi tempi; e in fine di un pane che non era cotto nel forno comune, ma in quello che noi si chiama forno di campagna.

Pane sì bianco che l’eterea neve
Vince in candor. Che se i celesti numi
D’orzo mangiano il pan, ec...

È simile questo detto d’Archestrato, come nota Casaubono, a quello di Varrone musas plautino sermone loquuturas fuisse si latino sermone loqui vellent. L’espressione Ἄβραις Δαλλων ὥραις, che alla lettera vuol dire fiorendo pe molli