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capitolo ottavo. 23

ch’io avevo scoperta dal bordo, ed in essa io ebbi un piacevolissimo incontro: una giovane e ben graziosa donna, che mi accolse del modo il più ospitale. Non era forse una bellezza raffaellesca, ma era bella, educata e di più poetessa; ma guardate combinazione! in quella solitudine, a tanta distanza dalla capitale, io trasognavo.

Da essa seppi esser la moglie del capataz (maggiordomo) della estancia,1 che trovavasi a molte miglia lontana, e di cui la casa da lei abitata era un semplice posto. Mi fece gli onori di casa con una gentilezza di cui serberò grata memoria tutta la vita; mi offrì il classico mate,2 un buon arrosto, come solo si mangia in quei siti ove la carne è il solo alimento. Seduto e confortato, essa mi parlò di Dante, di Petrarca e dei massimi nostri poeti. Volle farmi accettare come memoria le belle poesie di Quintana, e finalmente mi contò la storia della sua vita. Essa, di agiata famiglia montevideana, era stata obbligata da certe peripezie commerciali di relegarsi nella campagna, ove avea conosciuto il presente suo sposo, con cui era felicissima, e colle sue propensioni romantiche nemmen per sogno essa avrebbe cambiato la condizione presente colla brillante vita della capitale. Alla mia richiesta d’un animale vaccino, per provvista di bordo, essa mi assicurò che suo marito sarebbe felice di contentarmi, e convenne quindi aspettarlo.

Comunque, era già tardi ed impossibile d’aver l’animale alla marina prima del giorno seguente. Il marito stette un pezzo a giungere, ed io, poco conoscitore della lingua spagnola a queir epoca, parlai poco, ed ebbi tempo a meditare sulle vicissitudini della vita. Vi sono delle circostanze nella vita, la di cui memoria è incancellabile. Io dovevo incontrare in quel deserto, moglie d’un uomo forse semi-selvaggio, una bella giovine con rego-


  1. Estancia, che corrisponde allo stazzo sardo, cioè stabilimento pastorizio.
  2. Infusione di foglie d’albero dello stesso nome che supplisce nell’America meridionale il caffè e thè.