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A GIOVAN BATTISTA NICCOLINI

fiorentino

Ho tentato di porre in tutto il suo lume il poema di Callimaco per la chioma di Berenice, e mando a te il mio lavoro, come premio della tua devozione a’ poeti greci, e come nuovo testimonio della nostra amicizia. Veramente, questa impresa presume maggiori studi di quelli, che la fortuna e la giovinezza, passata fino ad ora fra le armi e l’esilio, mi possono aver conceduto. Pure, se confronterai questo commento e la mia traduzione con quelle degli altri, non avrai, spero, a vergognare per l’amico tuo. E se tu trovassi ch’io possa essere superato da chi verrá, non troverai certamente ch’io non abbia avanzato chi mi ha preceduto. Però, dove io avessi mancato, altri piú dotto e piú curioso di siffatti studi supplisca; ch’io, per me, ho decretato di usare dell’ingegno piú a fare da me che a mortificarlo sulle opere altrui. Né mi sarei accinto a farla da commentatore, se in questa infelice stagione non avessi bisogno di distrarre, come per medicina, la mente ed il cuore dagli argomenti pericolosi1, a’ quali attendo per istituto. Cosí Catullo, sebbene per la tristezza allontanato dalle vergini Muse, tentava nondimeno l’obblio della sua sciagura, traducendo per Ortalo questo medesimo poemetto2. E me pure confortò la brevitá di questi versi, e mi strinse la loro meravigliosa bellezza. Non credo che l’antichitá ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le etá nostre che li pareggi. Però, dopo averli illustrati,

  1. Lucrezio, lib. i, v. 42.
  2. Nella dedica ad Ortalo (Carm., lxiv).