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al Duca d’Aosta la sua benedizione e un ricco anello. Si diceva che il figlio secondogenito di Vittorio Emanuele, scosso da tanti dolori, volesse entrare in un convento. Sarebbe stata quella una grande vittoria per il Vaticano, ma non potè riportarla. L’indole mistica di Carlo Alberto si riaffacciò nel nipote per breve momento; ma ben presto il figlio di Vittorio Emanuele pensò ai doveri verso il paese e verso il padre, e abbandonò l’idea di cercar rifugio alle sue pene nella religione.

Pochi giorni dopo che il Papa avevagli mandata la benedizione, il duca d’Aosta ribaltò di carrozza e si ferì gravemente. Questo fatto e la morte di una signora e di due vescovi venuti in pellegrinaggio, avvalorò sempre più la fama di jettatore che aveva Pio IX.

La solennità con cui si celebrava il giubileo episcopale con grande affluenza di pellegrini, la fondazione della Banca Cattolica internazionale, che si voleva disponesse di un miliardo di capitale, i preparativi che facevano i clericali per trionfare nelle elezioni amministrative, tutto questo unito insieme fece nascere nell’animo dei liberali il desiderio di affermare con una dimostrazione al Re in occasione della ricorrenza dello Statuto, e del 30° anniversario del patto giurato da Carlo Alberto, il sentimento patriottico degli italiani. L’on. Farini propose alla Camera d’inviare una deputazione al Quirinale; il marchese Alfieri fece eguale proposta in Senato.

La deputazione della Camera era composta degli on. Farini, Sella e Correnti, ai quali naturalmente si uni la presidenza; quella del Senato del marchese Alfieri e dell’ufficio di presidenza, che aveva redatto l’indirizzo. A queste due deputazioni si uni quella del Comune. Il Re nelle prime ore della mattina aveva passato in rassegna le truppe e una folla compatta lo aveva acclamato entusiasticamente. Quindi tornò al Quirinale per ricevere le deputazioni.

L’indirizzo della Camera, letto dall’on. Crispi, diceva:

«Sire!

«In questo giorno solenne, perchè destinato a ricordare lo Statuto, largito dal grande vostro genitore, e da Voi, in mezzo a fortunose vicende, mantenuto con patriottica lealtà, Noi, rappresentanti del popolo italiano, sentiamo l’obbligo di attestare alla Maestà Vostra la devozione. Imperocchè, sino da quando, nei giorni della servitù, il popolo italiano intui, nei giuramenti da Voi solo mantenuti e nel Vostro ossequio alla libertà, la grande forza, che avrebbe fatto leva alle male signorie, lo Statuto costituzionale diventasse simbolo e cemento dell’unità della patria e nel nome Vostro e nelle acclamazioni di questo fatto fossero vinte le lotte nazionali.

«Sui campi di battaglia, nei consigli dell’Europa, forte del diritto del popolo italiano, Voi non esitaste, o Sire, a porre a cimento la Corona e la vita a prò della grande missione animosamente assunta, valorosamente proseguita, pertinacemente compiuta. Ed il popolo italiano a tempo osando, attendendo a tempo, eletto Voi, prima che a Re, a moderatore e guida dei propri destini, attinse dal Vostro nome e dal Vostro esempio la concordia che procaccia il successo, la magnanimità e longanimità che lo avvalora, la impavida energia che lo difende.

«E Re e popolo gareggiarono per cittadina virtù!

«Sire!

«Da questa comunanza di sentimenti, di affetti e di propositi; da questo indissolubile fascio di volontà e di forze, durante il grande spazio di tempo decorso dal 4 maggio 1848 ad oggi, e nel quale Voi aveste tanta parte, noi ripetiamo la conquista del presente; a questo affidiamo la sicurezza dell’avvenire.

«Il perchè, o Sire, festeggiandosi oggi per la trentesima volta lo Statuto del regno, noi, qui adunati nella capitale della ricostituita nazione, abbiamo voluto confermarvi la immutabile fede degli Italiani nel loro Re e nei destini della patria.»