Pagina:Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu/40


Lettera Quinta 33

ne sentiamo per anco tutta la grazia, benché dalla nostra lingua, e dall’uso fatto con Dante abbiam molto ajuto, e massimamente dall’anima, che poetica già sortimmo, e dall’esperienza dell’ottima poesia; nè però mai sarà tradotto il Petrarca in lingua alcuna, come lo fummo noi, e i greci con sufficiente rassomiglianza in alcune. Ma buon per lui, che non sarà per ventura disfigurato e tradito da tanti barbari verseggiatori senz’anima, e senza orecchi, o prosatori eziandio, siccome lo fummo noi, e lo siam tuttogiorno senza poterci difendere. Ahimè, soggiunse allora un non sò chi, che in disparte stava ascoltando, che peggio ancora accadde al Petrarca, poiche trovossi un barbaro di nuova foggia, che lo travestì non già nelle parole, ma ne’ pensieri e nel senso de’ versi suoi, facendol parlare di tutt’altr’oggetto più santo, e più reverendo, onde questo si venne ad esser profanato, e quel del poeta a far pietà, e il Petrarca spirituale intitolò il suo volume. Non v’ha pazzia, ripres’io, che in fatto di poesia non si possa aspettare dagli uomini; ed io fui pur lacerato a brani, ed Omero il fu pure affin che dicessimo co’ nostri versi insieme accozzati le stravaganze più ridicolose, che un pazzo immaginava. Allora levossi in tutti gli antichi un mormorio, chi ricordava un’ingiuria chi un’altra fatta all’opere sue da mille importuni scrittori di verso e di prosa, di tutte l’età, d’ogni nazione. Or ritornando al Petrarca, fu concluso a pieni voti doversi tenere per gran Poeta, e dargli luogo tra i classici primi, e maestri. Ma fu stabilito al tempo stesso un tribunale, che ne togliesse il vizioso, il freddo, l’inutile, e le ballate, e le sestine, e le frottole, e il resto troncasse che all’onor del Pe-