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Lettera Quarta 23

Sonetti senza fine, e Canzoni senza modo ci venivano sempre davanti. Qualche sollievo aspettavasi dall’amabile varietà, quel condimento sì necessario agli stessi piaceri, de’ quadri di Storia e di favola, o di battaglie, o di tempeste di mare, o di spettacoli sontuosi, del chiaroscuro in somma, e del contrasto. Ma indarno. Tutta la Galleria non offriva se non se quadretti, e miniature di chiare fresche e dolci acque, di rapidi fiumi d’alpestre vena discesi, di verdi panni sanguigni oscuri e persi, di rose fresche e colte in paradiso, di colli, di poggi, di rive, erbe, ombre, antri, aure, e che sò io, tutto a’ finissime tinte, tutto lucente, e grazioso, ma tutto rassomigliante. Ci parve alla fine un corso di metafisica amorosa scritto in bellissimi versi, ed avvivato di belle immagini. Talor ci vennero sotto all’occhio Sestine, e Ballate, che ci nojarono mortalmente, oscure, aspre, insipide; qualche canzone misteriosa tutta allegorica, tutta divina pei comentatori, ma niente per noi poetica. I Sonetti medesimi cominciavano per lo più con un quadernetto, che ci levava in alto con l’anima, ed abbassavaci poi, sinche nel fine ci stramazzava per terra. Alcune poche canzoni trovammo invero, che d’amor non parlavano, ma che meglio avrian fatto di pur anch’esse parlarne, tanto parvero insulse, o fredde, o intralciate. Sopravvennero appresso, poiche mi posi a lasciar molte pagine addietro, per non insvenire, alcuni capitoli in terza rima, e Dante in essi parea proprio risuscitato, e se non era quel veramente divino, che incomincia. - La notte che seguì l’orribil caso - noi fuggivamo sicuramente per orror di trovarci un’altra volta impegnati nell’Inferno, o nel Purgatorio, o nel Paradiso. Perdoniam pure al Petrarca d’aver impiegate migliaja di versi, e più