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18 | Lettera Terza |
ser mai dentro a que’ strani linguaggi. Leggete, vi prego, i grossi trattati, che han fatto ne’ loro gran tomi su questi passi divini il Vellutello, il Landino, Benvenuto da Imola, il Daniello, il Mazzoni, e tant’altri; e qual battaglie non attaccarono anche i moderni? Ma quando poi giungono al Purgatorio, e al Paradiso, anch’essi questi campioni dan segno di stanchezza per quei diserti; perche dovete sapere, che non ho citato se non se passi dell’Inferno, che è il più nobile, e il più poetico della divina Comedia, come già udiste. Tutto questo ho voluto leggere dopo l’ultima nostra conversazione, e parmi d’averne intesa, se troppo non son temerario, la metà incirca; ma l’altre due parti ho scorse qua e là prestamente, per tema di perdermi in quell’eterna vacuità. Per la qual cosa, o Virgilio, tu non devi anteporre per alcun modo il tuo Dante ad Ennio, o a Pacuvio, perche se mancano questi di qualche bel passo, e di fuoco, e di forza per consolar chi legge; non hanno nemmeno la crudeltà di Dante, onde tormenta senza pietà le orecchie, e la pazienza di chi si lascia condurre per quelle arene, per que’ precipizi, per quelle tenebre, per quel labirinto inestricabile ed infinito. Che se pur egli è vero, come verissimo è pure, non consistere il pregio d’un libro, e d’un poema in alcuni bei tratti qua e là scelti, e cercati, ma sì nel numero delle cose belle paragonato a quello delle malvage, e nella soprabbondanza di quelle a queste, io concludo che Dante non deve esser letto più d’Ennio e di Pacuvio, e che al più se ne devono conservare alcuni frammenti più eletti, come serbansi alcune statue o bassi rilievi d’un antico edifizio inutile, e diroccato.
Tacque alfin Giuvenale, e parve a tutti quel declamatore, e satirico ch’egli è infatti per sua natura,