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16 | Lettera Terza |
Dunque, restano tredici mille difettosi e cattivi, riprese allor Giovenale con impazienza, e quattro mille novecento terzine all’incirca restano da soffrirsi. Il bel poema invero, e la dilettevole poesia, che è questa. Non è egli lo stile quel punto in poesia principale, e decisivo per cui perirono tanti poemi, e per cui non periranno alcuni pochi giammai? La dicitura, la versificazione, la poesia verbale in somma, cioè la poesia della poesia è pur il sugello della immortalità per te, per Omero, per Pindaro, per Orazio, e per me stesso, malgrado i miei difetti, onde siam la delizia di tutti i secoli? Che può dunque pretender Dante se manca in questo nelle tredici parti, e se riesce in una soltanto? Io sfido il Poeta Scitico, e Geta più barbaro, che mai cantasse in riva de’ mari glaciali, a parlar più basso, più duro, più falso, più freddo che non fa Dante in tanti luoghi. Udite come loda quello Scaligero Signor di Verona:
- Questi non ciberà terra né peltro,
- Ma sapienza amore e virtute,
- E sua nazion sarà tra Feltro, e Feltro.
Grand’uomo era certo costui, che mangiava sapienza, e virtù non essendo assai ghiotto di peltro o di sabbia; e Verona contrassegnata da due termini sì precisi, come è Feltre nella Marca Trivigiana, e Montefeltro verso Urbino, non è bella geografia? Oh possanza d’una rima bestiale! Il peggio è, che tai rime son giojelli per Dante.
- Pape Satan, Pape Satan Aleppe,
- Cominciò Pluto con la voce chioccia,
e così par che vada cercando il suo malanno per tutto quel canto, di rima in rima sempre più stravagante:
- Così scendemmo nella quarta lacca