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xi - le «stanze» 355


appagato, come fosse quella tutto il mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietá. Perché il motivo dell’ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo; e non come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e nell’ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura. L’ottava del Boccaccio, diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze. Non è un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l’insignificante e l’indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora. Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti dá l’insieme, ma le parti; non ti dá la profonditá, ma la superficie, quello che si vede. Pure le parti sono cosí bene scelte e la serie è ordita con una gradazione cosí intelligente, che all’ultimo te ne viene l’insieme, prodotto non dalla descrizione, ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera, e ti dá una serie di fenomeni:

                                    Zefiro giá di be’ fioretti adorno
avea de’ monti tolta ogni pruina:
avea fatto al suo nido giá ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all’óra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.