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vii - la «commedia» 239


argomentazioni. E questo è non per difetto di virtú poetica ma per falso giudizio. A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. — Tornate indietro — egli dice, — ché il mio libro è per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; — e sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso è poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.

La visione intellettuale è la beatitudine. L’esposizione della scienza riesce in cantici e inni; le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo:

                                         Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassú si canta.

     Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: — Santo, santo, santo. —
     

Cosi è sciolto questo mistero dell’anima. Adombrato ne’ simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato: è la divina commedia dell’anima, il suo indiarsi nell’eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,

                                    se d’alto monte scende giuso ad imo,      
è l’amore, è Beatrice, che all’alto volo gli veste le piume. Beatrice è in sé il compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne’ suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando, «regalmente proterva», rimprovera l’amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne’ suoi effetti su Dante e su’ celesti. Ecco uno dei piú bei luoghi:
                                         Quivi la donna mia vid’io si lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che piú lucente se ne fe’ il pianeta.