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che gli si spiegano innanzi, non parlando o filosofando, ma esistenti e còlte in questo o quell’atto dell’esistenza. Allora il lettore si sente divenire immediatamente l’eco riflessa e partecipe di quella vita, e ci sta dentro e vi si oblia e gode.

Qui è l’effetto estetico, qui è quello che si dice dilettazione estetica.

Un matematico, ottuso alla poesia, domanda : — Ma cosa dimostra questo? — .

Guai! quando il lettore rimane rigido e come staccato da una poesia, e domanda : — Ma cosa significa? cosa ha voluto fare il poeta? — .

Questa domanda se la fará certo, ma quando l’effetto estetico è compiuto ed esaurito.

Qui il poeta stesso sembra soggiacere ad una preoccupazione che non ha niente di estetico. Teme di non esser capito, e che il lettore getti via il libro, dicendo : — Ma che mattezze son queste? — . E perciò spiega e torna a spiegare, sempre col pensiero innanzi, e a quello accomodando la rappresentazione. Cosi le forme sono solo abbozzate, la rosa appena piglia figura, un vento non amoroso ma nemico l’investe e la schianta: e ciò che rimane innanzi al lettore non è la rosa nata morta, ma il gelido pensiero o il puro spirito1 che agghiaccia l’esistenza e l’arte, non dando allo spettro una simulazione perfetta di vita, ma dando alla vita un continuo significato di spettro, ombra, vacuitá, apparenza; ciò che è distruggere ogni illusione e avvelenare la poesia nella sua fonte.

Il concetto stesso ha questo vizio, essendo nato non da un sentimento pieno e immediato della vita, ma da idee metafisiche preconcette e da fini estranei all’arte; sicché il libro sembra uno sviluppo, sotto forme e figure simboliche abbastanza trasparenti, di una serie di concetti, anzi che la rappresentazione diretta e immemore della vita.

Né mi si dica che il concetto è pur cosí nato in capo a Dante



  1. Spirito d’amore, pag. i76.