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l’«armando» di giovanni prati | i99 |
le foreste, per le rupi, per il selvaggio e il primitivo, e prova un’amara voluttá a trovarvi e straziarvi sé stesso, a cercarvi una dimostrazione palpabile di quel concetto dell’universo che gli frulla pel capo, si che ciascuna vista aguzza la sua malattia, e insieme la raddolcisce, cavandolo da quella quietudine stanca ed inerte che è morte, e aprendo il varco alla lacrima, al lamento, al fantasticare, al sognare. L’anima è sempre ammalata, ma ora è almeno attiva, le sue facoltá sono in esercizio, e può essere eloquente, può narrare sé stessa.
Qual è dunque questa malattia morale? È il concetto stesso che è l’anima di Manfredo, di Amleto, di Fausto, di Leopardi: è l’uomo che si pone come lo Spirito, l’Infinito, e cerca e non trova sé stesso nel reale, e rimane desiderio senza potere, enigma straziante di rincontro al quale si consuma e si frange.
Non è la tale o tale malattia morale : è la malattia morale in sé stessa, la malattia dello spirito: era la tragedia, ora è la malattia.
La prima volta che si rivela chiaramente il male è dopo l’incontro di Armando con la zingana. Ivi ha commesso direttamente il peccato, che è la sostanza della sua malattia; ha voluto strappare il suo segreto all’avvenire, e i suoi misteri al sepolcro. Ivi si sente desiderio infinito e impotenza assoluta.
Il suo male giunge all’ultimo stato di acutezza a Roma, sede dell’Arte. Innanzi a quella cittá, suscitatrice di tante memorie di una vita sana e poderosa, esclama:
O inutile mia vita! |
E, avoltoio feroce contro sé stesso, la nega, la maledice, corre al suicidio; il male, giunto alla sua ultima punta, si risolve; una vena di tenerezza, e la prima lacrima prenunzia la crisi.
— T’allontana da me, fatua farfalla, Ch’io giá non sono un fior per impregnarti L’ali di dolce ambrosia; e non un raggio Di foco in ver, per consumarle, io sono. T’allontana da me, vaga sembianza |