Pagina:De Sanctis, Francesco – Lezioni sulla Divina Commedia, 1955 – BEIC 1801853.djvu/371


esposizione critica della divina commedia 365


                                    Guidoguerra ebbe nome: ed in sua vita
Fece col senno assai e colla spada.
     

Alcuna volta si contenta di un solo epiteto, ma di quegli epiteti nuovi e comprensivi, che scolpiscono e perpetuano, che destano la meditazione e slargano la fantasia e che rimangono nella memoria degli uomini come adagi o sentenze.

                                    Questi sciaurati, che mai non fúr vivi.

Vidi il maestro di color che sanno.

Di quel signor dell’altissimo canto.
     

Spesso gli basta lo scarpello; e niuno meglio di Dante ha compreso l’eloquenza del silenzio.

                                    Supin ricadde, e piú non parve fuora.

E per dolor non par lacrime spanda.

     Di quella sozza scapigliata fante.
     

Espressioni mute di estrema angoscia, di forte animo e di turpe laidezza. Non solo il supremo affetto, ma ancora l’ultima viltá non ha parola.

La parola manifesta l’attivitá interiore, ed è segno estrinseco della dignitá dell’anima: quindi, con profondo significato, i poltroni gemono e piangono, ma non parlano. Dante guarda e passa. Altre volte tutto un carattere è giá vivente in un semplice atto prima ancora che parli il personaggio.

                                    Ed ei s’ergea col petto e colla fronte
Come avesse l’inferno a gran dispitto.

     Chi è quel grande che non par che curi
Lo incendio e giace dispettoso e torto?