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206 secondo corso tenuto a torino: lez. v


anch’egli in terra. La pena non è solo materiale e l’attinge l’anima del colpevole. Quest’uomo pensa e sente per mezzo de’ piedi che soli paiono di fuori, e simile ad un cieco che ha la vista nel tatto, i suoi cinque sensi sono concentrati nel piede e se sente dolore della fiamma che gli succia la carne, egli piange, «piange con la zanca»; e se sente dispetto, il suo dispetto esprime torcendo i piedi; è il gesto del piede sostituito al gesto della testa e delle mani. E se sente rabbia o rimorso de’ rimproveri che Dante gli fa, la sua agitazione esprime «forte spingando con ambo le piote». È un individuo-specie, è una specie di essere a parte; e la differenza che l’uomo capovolto pone tra sé e gli altri uomini, è che gli altri stanno piantati sui piedi; e se parla di Bonifazio, l’immagine unica che gli presenta quest’uomo è l’immagine opposta al suo stato, lo star diritto su’ pie’; e se parla di Bonifazio a Dante, e dee dire: — Ei non vivrá — ; qual è l’immagine che gli si affaccia? Un altro a cui sepolto in un’oscura tomba il vivere era la luce, disse:

                                    Non fere gli occhi suoi lo dolce lome?      

Per l’uomo capovolto il vivere è lo star piantato su’ pie’, e dice: «ei non stará piantato sui pie’ rossi». Lo spettacolo di un uomo, il cui cervello e i cui sensi sono nel piede, è ben tristo. Un uomo fatto albero ci ha altamente commossi: perché qui non sentiamo pietá? Ma vedete dunque chi è costui. Tutto è mutato intorno a lui: alle pantofole rosse, a’ piedi rossi, com’egli chiama i piedi ancora papali di Bonifazio, è succeduta la rossa fiamma che corre dalle calcagna alle punte; vi è di che far gridare: — Vanitas vanitatum! — Niente sopravvive piú di quello che egli fu in terra, niente fuorché la sua colpa: la terra vive ancora dentro di lui. Dee dire a Dante: — Sappi che io fui papa — e quale è l’immagine che egli sceglie? Che cosa significa per lui l’essere papa? Portare un manto, portare un gran manto che lo distingue dagli altri. Costui, Niccolò III, apparteneva alla famiglia Orsini, e dovendo parlare della sua colpa di avere ammassati tesori per arricchire i nipoti, — piaga comune in quel