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v. l’«orlando furioso» i07

Ariosto compatisce quegl’infelici. Ha mollezza di suoni, melodia: si vede che ha innanzi un sogno, non una realtà. Per Dante tutto è serio; Ariosto cerca d’abbellire, addolcire:

     Aspro concento, orribile armonia
D’alte querele, d’ululi e di strida
Della misera gente che peria
Nel fondo per cagion della sua guida,
Istranamente concordar s’udia
Col fiero suon della fiamma omicida.

E, se volete misurar tutta la distanza fra il poema dantesco appassionato e reale, e questo poema dell’immaginazione, leggete i due versi che chiudono quest’ottava:

Non più, Signor, non più di questo canto;
Ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto.

L’incendio gli fa venir la raucedine; spezza e passa ad altro.

Questo incendio è il piedistallo creato a Rodomonte, che esce dalle condizioni storiche; è solo, in una città di duecentomila abitanti; i suoi sono arsi: la situazione creata dal poeta per l’eroe è assurda di sublimità; o, se vi piace, sublime di assurdità. Il primo movimento di Rodomonte,

Volgendo gli occhi a quella valle inferna,
è un alto grido di bestemmia e rabbia. C’interessiamo a lui; fa dimenticar tutti i combattenti: la battaglia divien lo sforzo d’un solo. L’autore gli volge le spalle; torna alla battaglia, ad altre avventure; chi ci pensa? si spassa con lui; va assaporando il soggetto: lo lascia per cinque canti in Parigi.

Sopravviene un nuovo elemento. La moltitudine, che nei poemi cavallereschi è la vile canaglia, «pecore e zebe», ha vita drammatica in Ariosto perché sola contro Rodomonte. Tutti gl’impotenti e gli inermi stavano in piazza quando Rodomonte, presentandosi, li sbigottisce. Succede un grido universale, una