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la crisi 43

lava spesso del suo maestro Nicola d’Andria e di Cotugno e di Bufalini e di stimolo e dí controstimolo. Ci parlava di tempi nei quali si curava con buoni arrosti e con buon vino, sul fondamento che ciascuna malattia provenisse da debolezza. Poi combatteva questa dottrina, e parlava di lenitivi e di emollienti e rilassanti, di purghe e di salassi, accompagnati con l’inevitabile digiuno, visto che ciascuna malattia proviene da infiammazione. Sentivo zio Pietro a bocca aperta; quelle metafisicherie mi facevano gola, e aguzzavano in me l’appetito di nuove letture. Qualche ora del giorno si passava a studiar greco col Margaris, e latino col Rodinò. A casa trovavamo puntualmente il maestro Cinque, un bassotto sbarbato e guantato; ed ecco sonare, cantare, ballare. Oh! l’era una bella vita. Io c’ero tutto dentro, fantasticando, meditando, leggendo, quando il caso dello zio Carlo mi chiamò alla triste realtà. Tutti gli studi furono interrotti. Ogni allegria fini. Quegli squarci di cielo azzurro che ridevano alla mia anima si copersero di nuvole. Il presente era triste, l’avvenire divenne oscuro.

Zio Pietro dispose che Giovannino andasse a fare la sua pratica presso il Padovano, un riputato avvocato commerciale. E io rimasi li in casa, con tutto il peso della scuola sulle mie spalle curve. La sera andavo sempre alla scuola del Puoti; ma tutta la giornata era spesa a spiegare grammatiche e rettoriche e autori latini e greci, a dettar temi, a correggere errori. Ero pazientissimo, rotto alla fatica; pure quelle cinque classi prostravano in me ogni virtù. Finivo mezzo cretino, inetto a capire un libro, e non sapevo come zio avesse potuto durare a quella pena. Quei cari studi dei miei primi anni mi riuscivano acerbi, non solo per la fatica, ma perché non erano più d’accordo con la mia coscienza. Quel Soave, quel Falconieri mi facevano pietà. Quelle ariette del Metastasio, quelle ottave del Tasso, quei sonetti, quelle sestine, quelle epigrafi, quelle ceneri coronate, quegli Adami rabuffati. quei maestri di fulmini e quegli Eugenii che fanno paura alla morte, non entravano più nel mio spirito. Quel dover torturare una frase di Livio o di Tacito che facevano gli scolari per cavarne un senso plausibile, era una tortura al mio