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la lirica 155

grande impressione, e sono rimasti sempre il capo saldo della mia critica. Accompagnavo le teorie con frequenti letture di quelle poesie, dove avevo modo di scendere nei più fini particolari della composizione e dello stile.

Coronammo quelle lezioni con un pio pellegrinaggio alla tomba di Giacomo Leopardi. Divisi in piccoli gruppi, ci demmo la posta al di là della Grotta di Pozzuoli. Quei paesani ci guardavano con gli occhi grandi, e ci presero forse per una processione di devoti, che andavano in chiesa a sciogliere non so qual voto. Noi ci fermammo con religioso raccoglimento innanzi alla lapide, sulla quale è l’iscrizione di Antonio Panieri, nome caro a noi, perché caro a Giacomo Leopardi.

Intanto in casa continuava la baldoria. Costretto a non interrotta meditazione per la novità delle mie lezioni, che mi tiravano il miglior sugo dal cervello, perché non avevo tempo né voglia di leggere, né libri adatti, e spesso tutto veniva da un’accanita riflessione in me stesso, lasciavo dietro di me i rumori di casa, e me ne andavo tutto solo a fantasticare per Capodimonte o per altri luoghi lontani, gesticolando, vagando talora con gli occhi distratti, e ripigliando poi il filo col mio solito: «Dunque, allons, pensiamo alla lezione». Quei buontemponi che erano attorno al greco, ne inventavano delle belle. Venne loro il ticchio d’imparare il ballo. Si fece una compagnia d’amici, e due volte la settimana era un diavoleto. Il bello è che vollero tirare anche me in quel gioco turbolento, e io mi ci acconciai di buona grazia, ricordando le lezioni del maestro Cinque. Non sapevo più là del walzer tedesco; le chiamate della contraddanza poco mi volevano stare in mente. Non era ancora di moda la polka, ma c’era il walzer saltante e non so quali altre novità, e io con tutti quei sopraccapi ci mettevo poco studio. Poi ero tutto d’un pezzo, come diceva il Marchese, e non ci avevo grazia. Aggiungi una cert’aria professeur, come diceva il greco, l’aria del mestiere, che ti sale sulla faccia. I motteggi m’impacciavano di più.

Si danzava quasi sempre nel gran salone, che qui chiamano galleria, sotto a cui stavano due stanze da letto di un commissario di polizia. A quel chiasso questi s’inalberò, e volle intimi-