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la rima, e condenserá le sette terzine di questa descrizione in tre o quattro versi. Leggete la Sera del dí di festa:

    Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.

Qui hai grandi spazii in un insieme ben circoscritto, una vista unica che va immediatamente all’anima e move l’immaginazione; lo spettacolo è chiaro, ed è insieme ingrandito e spiritualizzato. Migliore impressione ti fa la descrizione della tempesta, perché ivi c’è azione, un prima e un poi, una formazione successiva della tempesta, con effetti ritmici che ti danno il rilievo e ti tolgono allo stato ordinario e comune, massime quando ti balza innanzi la donna smarrita in quella furia della natura:

.    .    .    .    .    .    .    .    .    correa,
Sì che i panni e le chiome ivano addietro
    E il duro vento col petto rompea.
Che gocce fredde giù per l’aria nera
In sul volto soffiando le spingea.

Questo è ciò che rimase della cantica, e ciò ch’era degno di rimanere, come cosa di qualche pregio, secondo il giudizio di Giacomo. E quanto giudicasse bene, si vede ora che quella cantica è venuta fuori sotto questo titolo: Appressamento della morte. Io la trovo ancora più giù che non m’era parso. Probabilmente la Basvilleide fu il primo stimolo che lo condusse a questa imitazione dantesca infelicissima. Già si sa. Noi altri abbiamo tutti percorso nella prima gioventù questo stadio del purismo prosaico e poetico. Il giovane toglie da Dante l’ossatura, e ci si sente il Petrarca nella superficialità de’ Trionfi e nel lambicco delle frasi, distantissimo dall’uno e dall’altro, e anche da Monti. La concezione è goffa, e il dettato è così infelice, che a me non pare cosa scritta in questo anno. Si capisce che più tardi, frugando ne’ suoi zibaldoni, pose da canto quell’esercizio giovanile