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ix. 1817 - nuovi studi | 67 |
Il frammento cavato dalla cantica ha per titolo: Lo spavento notturno.
È una descrizione allegorica in terzine, a modo dei Trionfi. Una bella donna s’avvia a sua mèta sotto un bel cielo stellato, a chiaro di luna; ma il cielo si turba, scoppia la tempesta, e il sangue le si impietra nelle vene. Sognava amore e trova la morte.
A quel tempo si credeva ancora che la forma poetica richiedesse un certo macchinismo, come amore, e cielo, e Olimpo, e simili personificazioni allegoriche. C’era uno che non ci credeva più, Manzoni, un nuovo astro. Ma ci credeva Monti, l’astro maggiore. E il nostro giovane seguiva Monti.
Probabilmente la cantica doveva essere uno dei soliti concetti allegorici; e non ci vuole molta sagacia a indovinare che la base era la lotta tra amore e morte.
Il conte Carlo, fratello a Giacomo, assicura che il soggetto nel suo insieme era molto interessante. Ma tale non parve a Giacomo, che ne conservò quel solo frammento. Nel quale il concetto non ha alcun valore; rimane la descrizione del sereno e della tempesta, in versi di una fattura molto fina, evidentemente ritoccati e limati. Si sa che i giovani per prima cosa corrono alle descrizioni. Il notturno sereno, chi non l’ha descritto? Sono qui in bei versi luoghi comuni: gli arbori inargentati, il canto dei ramoscelli, e il pianto dell’usignolo, e il lamento dell’onda; oggetti minuti e soliti, colti nella loro immobile superficialità, e perciò disposti arbitrariamente, sicché il poi potrebbe essere il prima.
La natura è descritta, non è sentita. E centinaia di nostri poeti descrivono mirabilmente; a pochissimi è dato il sentimento della natura. Leopardi, sommo tra questi pochissimi, più tardi avrà il sentimento di quello che ora descrive, e manderà via «la sorella del sole», e questa minuteria di oggetti, e anche