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46 | giacomo leopardi |
Ma se tanto d’udire i nostri guai. Se brevemente di saver t’agrada L’ultimo eccidio, ond’ella arse e cadéo... |
Dov’è tanta emozione, qui è tutto volgaritá. «I nostri guai» sono i guai di casa mia. E «l’ultimo eccidio, ond’ella arse e cadéo», cosa è di rimpetto a quel «supremum laborem»? «Supremum», l’ultimo di ogni ultimo, l’ultimo assoluto, supremo; ma si può dire qui altrimenti che supremo come quel poeta che se ne intendeva e disse:
Il supremo respiro mandò? |
E il «laborem», dov’è non solo quel materiale eccidio, ma l’affanno, il travaglio, l’angoscia, l’agonia? Diluito e materializzato in quello «eccidio ond’ella arse e cadéo». Il traduttore sostituisce la quantità alla qualità, come quell’«ipse» che diviene un triplice io, «vid’io», «io stesso il vidi», «io fui».
Leopardi quando diceva in fondo che la traduzione del Caro gli pareva un travestimento borghese di Virgilio, diceva vero. Ma lui!
La forma non gli ha aperto ancora tutti i suoi segreti, e non si sente libero innanzi a Virgilio, anzi gli sta innanzi come servo, e ne spia gli atti e i gesti. Ciò che egli dice è proprio il testo, e come il testo lo dice; ma quegli atti e quei gesti imitati da lui sono goffaggini, e non c’è spontaneità, né sveltezza, e non sentimento e non colorito. C’è l’«infando dolore» e il «miserando regno», ma questo italiano è non altro che la nuda lettera del testo latino, e non genera né quelle immagini, né quelle armonie, né quei sentimenti, massime in compagnia di forme prosaiche e volgari, come il «tantas opes» divenuto i «teucri averi», e il «renovare jubes» divenuto un «cui tu m’imponi ch’io rinnovelli». Il «conticuere» è l’«ammutirono», meno il suono rimpiccinito e il tuono quasi comico: e il «fissi in lui Teneano i volti», oltre quello «in lui» che andava sottinteso, ed è espresso, e peggio in fin di verso, non rende quella forma plastica virgi-