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32 giacomo leopardi
È preda incerta! Oh quanto dolcemente
D’un platano chiomato io dormo all’ombra!
Quanto m’è grato il mormorar del rivo,
Che mai nel campo il villanel disturba!


È brevissimo e si legge tutto d’un fiato, e te ne viene una impressione chiara e immediata. La forma è qui una con quella situazione dell’anima che abbiamo descritta. Parole piane, andatura uguale, suoni facili e soavi, quasi molli. L’abbandono dell’anima in grembo alla natura ha per sua espressione una certa rilassatezza, come il sopore che le membra «lieve rilassa». È una dolce pianura, su cui l’occhio cade ugualmente, non distratto e non turbato da prominenze o incurvature. Pure, in questo mare tranquillo una increspatura c’è, e la senti in quello sdrucciolo piantato superbamente nel centro del verso: «il suol riguardo, e gli arbori». È la tempesta che muta del pastore il sito, non l’anima. Perciò un tocca e passa, con un crescendo rapidissimo, come di chi teme e fugge, non di chi gode e resta. Quel «mar canuto», che spuma e si avvicina, e poi il gorgoglio dell’onda, e poi lo strepito, sono cose belle in sé, ma non gustate, anzi temute. Senti in quei suoni e in quel crescendo più la paura che la contemplazione. Ma quando il pastore è nella selva, il vento diviene poetico, e non dice che romoreggia il vento, dice che il pino «canta al soffiar di gran vento». Una dissonanza o increspatura così lievemente toccata è risalto alla semplicità e alla uguaglianza del motivo, tutta una sola melodia senza variazioni o ricami. Il sentimento, prima incorporato con le cose e quasi nascosto in esse, da ultimo se ne sviluppa e si effonde.

Questa non è una traduzione, è poesia originale, e direi profetica. Perché qui c’è già un primo indizio della maniera leopardiana: la base idillica della sua anima e del suo canto, la prima e tenue corda di quello che un giorno sarà una orchestra. Questo fu Leopardi a diciassette anni.