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18 | giacomo leopardi |
Egli è ancora il prodotto spontaneo e inconscio della natura e dell’educazione, come siamo tutti, più o meno, in quella età. E quantunque declami contro il tiranno Aristotile, predichi il libero esame, si vede che il suo spirito non ha acquistata ancora la sua indipendenza nelle opinioni e nella forma dello scrivere. Pure, il secolo decimottavo c’era per qualche cosa in quest’ambiente, e te ne accorgi qui, dove è visibile un certo ardore di riforma, un desiderio del nuovo, una smania battagliera; parla sempre lui, e non ha a fronte contraddittori, e corre l’aringo tutto solo, vociferando e minacciando.
In quest’anno Gioacchino Murat, levato lo stendardo dell’indipendenza italiana, e trovato scarso riscontro ne’ cittadini, cadeva tra gli urli e le contumelie della reazione. Tra queste voci sentiamo pur quella del piccolo Giacomo in una orazione scavata e pubblicata testé dal Cugnoni. Nel Saggio vediamo le sue opinioni religiose; qui par fuori l’ambiente politico, del quale il giovanetto era una eco appassionata e presuntuosa. Voleva rifare Demostene e Marco Tullio, immaginando negl’italiani un uditorio ateniese o romano. Nell’orazione si vede il frasario della reazione europea, mescolato con generalità cavate dal suo repertorio classico. Assale i vinti con ogni maniera d’ingiuria; e i vinti sono Napoleone, il nemico di Europa, Gioacchino, carnefice, tiranno, ladrone, e il popolo francese, vile e ribelle, degno della vendetta dell’universo. Le contumelie contro i vinti rispondono alle glorificazioni eccessive de’ vincitori. La lingua è barbara; lo stile è gonfio; l’impressione è fredda. Non trovi un solo punto, che mostri moto di spirito o di cuore.
Pure, se guardiamo per entro alle fila non mal connesse di questo lavoro, si vedrà che il giovane oratore della Santa Alleanza non ha un linguaggio tale, di cui la reazione si potesse chiamar contenta. Mira a convincere la parte liberale, più che