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14 | giacomo leopardi |
moderne, sprezzava Omero, Dante e i classici, non pregiava che francesi, e i primi suoi scrittacci originali non furono che traduzioni dal francese.
La Francia era allora nella pubblica opinione «à la tête de la civilisation», per dirla alla francese, e si disputava seriamente quali fossero più grandi scrittori, o i greci o i francesi, Euripide o Racine, Sofocle o Corneille.
Con queste impressioni il suo scrivere era un italiano corrente, venutogli attraverso il francese. Le sue opinioni si accostavano anche a quelle del secolo. Pei giovani ha ragione sempre il secolo che ultimo parla. A sentirlo, Aristotile è il tiranno della ragione, e non bisogna giurare a «in verba magistri», e bisogna pensare col capo suo — ma nol dice questo, col capo suo — , e il mondo è pieno di errori e di superstizioni; e se una riforma universale è cosa ridicola, bisogna pure acconciarsi a questa o a quella riforma.
Fin qui arrivava lui, e ci stavano in generale gli uomini colti. Quelle massime in quella misura così temperata, già fu tempo, erano partecipate anche da’ principi.
Il giovanetto scriveva:
Credere una cosa perché si è udito dirla e perché non si è avuta cura di esaminarla, fa torto all’intelletto dell’uomo. Una tal cecità appartiene a quei tempi d’ignoranza, nei quali si stimava saggio chi obbediva al tiranno della ragione, e chi giurava sulle parole di Aristotele.
Ecco linguaggio di secolo decimottavo. E prima aveva già detto:
Si deridono con ragione i progetti di riforma universale. Frattanto è evidente che v’ha che riformare nel mondo, e fra tutti gli abusi, quelli che riguardano l’educazione sono, dopo quelli che interessano il culto, i più perniciosi.
Sembra un periodo tradotto dal francese, con lieve movenza italiana. Ma il secolo decimottavo nelle sue applicazioni andò