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114 | giacomo leopardi |
Quelli dunque che gridano Leopardi poeta del nulla, errano. Sono poeti del nulla quelli che lo amano e gustano la sua voluttà, perché anche il nulla ha le sue voluttà, come l’assenzio o l’oppio. È la voluttà della morte, il «cupio mori», il «piegare addormentato il volto nel suo vergineo seno», l’ultimo sorriso dell’uomo stanco, che ha in orrore la vita e la disprezza. Questo c’è, ma è appena un episodio in questa poetica rappresentazione del mondo. Il più spesso Leopardi aborre il nulla, e aborre perfino il pensiero, la ragione, la scienza che glielo impongono. E ama e pregia e desidera la vita, di cui non si sente stanco, ma privo; e se la rappresenta coi più ricchi colori dell’immaginazione, e le corre appresso co’ più impazienti moti del desiderio.
Odia il vero e ama le illusioni, «le care illusioni», ed è perciò non solo poeta, ma uomo, ha viscere umane e commove profondamente ogni cuore di uomo.
Questo era l’anno che dilatavasi sempre più l’ardore patriottico nelle classi intelligenti, e per mezzo de’ carbonari si comunicava a’ più piccoli borghi. La Spagna dava l’esempio all’Italia, e l’incendio avvampando divenne la rivoluzione del Venti e del Ventuno. Leopardi era in corrispondenza con Montani, che, avute le sue prime canzoni, augurava in lui il futuro poeta della libertà. E anche Giordani in lui vagheggiava il perfetto scrittore italiano, che dovea guadagnare alla libertà soprattutto l’aristocrazia. Questi i disegni sul giovine, che, affranto dal male e dalla solitudine, sul finire del 1819 scriveva a Giordani: «Amami tranquillamente come non destinato a veruna cosa, anzi certo d’esser