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xii. la forma dei «promessi sposi» | 263 |
Quando v’è il segno esterno, accessibile a tutti, della genialitá? Quando qualunque opera dello scrittore è cancellata nella sua produzione senza lasciare orma di sé, quando la produzione rimane se stessa, ciò che di più spontaneo è nello scrittore. Se v’accorgete di qualcosa estranea, a lei venuta dallo scrittore, là non è genialità, là si vede la fatica e la noia di lui. I poeti geniali sono pochi. Il più geniale in Italia è Ludovico Ariosto, dopo di lui si può mettere con ragione Alessandro Manzoni: propria della sua produzione è appunto questa genialità. È per altri rispetti inferiore a Dante, a Petrarca, ecc, ma pel brio e la facilità di produrre, è difficile porgli a fronte nessuno, e in questo mi pare oltrepassi anche Goethe, nelle cui opere vedete spesso il filosofo, l’uomo di mondo che oltrepassa lo scopo della produzione.
Qual’è la più geniale delle sue creature? Ne avete già il nome sulle labbra, don Abbondio: essa è la più perfetta uscita dall’immaginazione di Manzoni. Egli comparisce pel primo in iscena, dopo la descrizione del lago. Per una di quelle stradicciuole che serpeggiano su pe’ monti, va don Abbondio: noi non sappiamo ancora chi sia; ma a ciò bastano due o tre periodi. Voi, che in massima parte venite da piccoli paeselli, potete comprendere don Abbondio. Avete certamente veduto certi buoni preti a passeggiare la campagna, recitando l’ufficio, e mettendovi l’indice quando lo chiudono, per non disperdere la pagina. Camminano oziando, e non sapendo che altro fare, gettano i ciottoli co’ piedi; van girando, e siccome han la testa vuota, guardano con indifferenza ne’ luoghi più poetici. Innanzi a