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84 capitolo vi.

rannie, che imponevano i pregiudizi della classe, e più l’ordinamento amministrativo di quei patrimoni condannati all’immobilità, oberati da passività, da obblighi e doveri di ogni genere, e amministrati da numerosi agenti, le cui competenze non erano mai definite, e neppur note allo stesso padrone. Fra viceprincipi e ministri, fra maestri di casa e architetti, agronomi e fattori, computisti e legulei, al signore rimaneva la minore disponibilità delle sue rendite. Il bilancio di casa non era fatto da lui, ma lo trovava già fatto; e data la ripugnanza, propria della classe, ad occuparsi di conti, o di qualunque cosa richiedesse studio o fastidio, il padrone finiva per essere quasi come un dipendente dei suoi amministratori, e per ignorare la reale situazione del proprio patrimonio. Se questo andava in fumo, c’era sempre la sicurezza di rifarlo con un ricco matrimonio all’estero, o con una rigida economia, come fece Michelangelo Caetani, il quale, liberata la cospicua sostanza da qualunque onere, ricordò l’avvenimento con questa lapide, che si legge sulla porta dell’archivio:


aes alienum
a majoribus suis
grande conflatum
m. cajetanus
quadriennio dissolvit
mdccclvii


Non eran rari difatti i casi di fortune andate a rotoli, e poi ricostituite con ricche doti, ed era così profonda la convinzione di aggiustar tutto col matrimonio, che il jus redimendi entrava quasi in ogni contratto di compravendita delle grandi tenute.


*


Una o due volte al mese avevano luogo i «congressi», cioè le riunioni dei capi dell’azienda, alla presenza del principe, per discutere sulle maggiori cose del patrimonio: affitti di case e di terreni, restauri di fabbriche o fabbriche nuove; commercio di prodotti, e conti, rendiconti e liti, di cui il signore non capiva nulla, ma mostrava di capire per giustificare la frase di rito: «vado in computisteria». E seduto difatti sulla comoda seggiola a lui riservata, ascoltava quanto gli si riferiva, anche di tenute