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[v. 97-108] | c o m m e n t o | 215 |
pongono secondo le sopra dette cagioni; così seguitano poi gli effetti, e più si verificano nelle comunitadi ove concorrono molte volontà, che in uno uomo, lo quale più agevolmente può raffrenare la sua volontà, che non può uno popolo. Seguita: e beata si gode; dice della intelligenzia che è posta a permutare questi beni mondani, che dicano li uomini di lei ciò che vogliono, essa pur fa l’uficio suo e godesi beata: chè niuno non la può offendere.
C. VII — v. 97-99. In questo ternario lo nostro autore continuando il parlare di Virgilio, pone come Virgilio lo conforta al discendere del quarto cerchio nel quinto, dicendo: Or discendiamo1 omai; tu et io Dante, e questo or è una intergezione esortativa che l’uomo usa, quando vuole confortare, dicendo: Or corre bene, a maggior pietà; cioè a maggior tormento, onde ne seguita maggior pietà: Già ogni stella cade, che saliva Quando mi mossi. Rende la cagione ch’è conforto dello scendere, dicendo che è lo passamento del tempo, mostrando che già era mezza notte, quando le stelle ànno passato il quarto del cielo, che è la metà del nostro emisperio; cioè è passata mezza notte: imperò che la sera incominciano a salire dall’oriente tanto che vengano al mezzo, e poi cominciano a cadere verso l’occidente, e però dice che Già ogni stella cade; a denotare che è passata la mezza notte, che saliva Quando mi mossi; cioè quando io Virgilio mi mossi a entrare teco nell’inferno, che fu la sera, come appare di sopra cap. secondo, quando disse: Lo giorno se n’andava ec. — e il troppo star si vieta. Questo dice perchè non era conceduto di stare più che una notte nell’inferno, e questo finge l’autore per seguitare Virgilio che nel sesto dell’Eneida finge che Enea non istesse più che una notte nell’inferno, et in questo medesimo modo finge che Sibilla ammonisse Enea, quando disse: Nox ruit Aenea; nos fando2 ducimus horas ec.
C. VII — v. 100-108. In questi tre ternari lo nostro autore pone come del quarto cerchio discesono nel quinto, e come trovò nel quinto la palude chiamata Stige. Dice adunque: Noi; cioè Virgilio, e Dante, ricidemo il cerchio; cioè attraversammo, all’altra riva; ov’era lo discenso nel quinto, Sovr’una fonte; ch’era nel quinto et usciva della sua ripa, che bolle e riversa; l’acqua quando rampolla3, bolle e spargesi fuori. Per un fossato, che da lei deriva; cioè dalla detta fonte. L’acqua era buia assai vie più che persa. Descrive com’era fatta quell’acqua; cioè che era assai più nera che persa; ma non era al tutto nera, sicchè venia bigia. Perso è biadetto oscuro, e però dice vie più che persa. E noi; cioè Virgilio et io Dante, in com-