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capitolo sesto | 355 |
Mi affretto dunque a comunicarle questa piacevole cosa, e mi è grato che cosi sia terminato un tale affare. Quanto a me non posso che ripeterle di tenere la mia intera fiducia», ecc.1.
Ora intanto che Pio IX, spinto e sospinto da una parte e dall’altra, tirato di qua e di là, si dibatteva fra le morse della contraddizione, incalzato dai diplomatici reazionari e dai Cardinali e prelati sanfedisti a romperla col partito liberale e nazionale e, a stento, trattenuto dai Ministri, alcuni fatti tumultuosi venivano a turbare l’ordine e la quiete della città, nei giorni 11 e 12 aprile, sulla origine dei quali discordi sono gli storici, avvegnachè alcuni ne accusino promotori i radicali ed altri i clericali. E questa seconda opinione, io credo, per le ragioni e i documenti che addurrò, la vera.
Nelle ore pomeridiane del giorno 11 aprile si adunano manipoli di sfaccendati, di individui pregiudicati, cui si uniscono molti operai - di quelli occupati a quindici e a venti soldi al giorno, nei lavori detti di pubblica beneficenza - a piazza Colonna e a piazza di Montecitorio. Tanto il Gradoni quanto lo Spada, tanto la Pallade quanto il Contemporaneo sono concordi nel designare quella accozzaglia di gente con gli epiteti poco lusinghieri di feccia, plebaglia, insolenti, sfacciati, mascalzoni, vagabondi; insomma quella gente è indicata quale faecula urbis, come l’avrebbe chiamata Marco Tullio Cicerone.
Quell’accozzaglia di gente comincia a mormorare, a bisbigliare, poi a declamare intorno alla propria miseria e finisce per gridare che vuole pane e lavoro.
Alle notizie di quel rumore accorrono varie autorevoli persone ad arringare e a calmare quella ciurmaglia e, fra coloro che le rivolsero gagliarde e sentito parole, per ricondurla all’ordine, il Grandoni ricorda Pietro Sterbini.
Secondo il racconto dello Spada, il Ministro delle finanze, monsignor Morichini, fu il primo a dar prova di debolezza, egli che, dal palazzo di Montecitorio, dove risiedeva il Ministero a cui esso era preposto «più per ispavento forse che per compassione, fatti dar loro quindici balocchi a testa, li rimandò alle loro case»2.