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capitolo sesto 341

a Spoleto, a Foligno, a Tolentino, a Macerata, a Loreto, a Ancona, a Senigallia, a Pesaro, venivano aumentando straordinariamente di numero, perchè, in ognuna di quelle stazioni» nuovi manipoli, nuove compagnie e, per conseguente, man mano, nuovi battaglioni si venivano aggregando ai primi partiti da Roma. Le marcie si compivano con ordine e con lodevole energia nel sostenerne i disagi per parte dei volontari, quasi tutti nuovissimi a quei faticosi esercizi1.


  1. Intorno alle marcie dei volontari il turpe libellista francese visconte D’Arlincourt (Italie rouge, già citata, cap. IV, pag. 65 e seg.), inventa come è suo costume - tutto un tessuto di calunnie, affermando che i volontari - fior di canaglia, dice lui - commisero rapine, saccheggi e ladrocinii dovunque passarono. Non v’è neppure bisogno di dire che queste spregevoli calunnie non sono confortate neppure dall’ombra della prova, ma importerà rammentare al lettore che esse sono anzi smentite dalle narrazioni degli altri storici - anche di sentimenti papalini - e dalle corrispondenze inviate, giorno per giorno, dalle varie città per le quali successivamente passavano i volontari, al giornali romani Contemporaneo, Pallade, Epoca, Labaro e da essi, man mano, pubblicate; corrispondenze da cui risulta evidente e lampante che la marcia dei volontari fu veramente trionfale. Ora la calunnia del D’Arlincourt ha origine dal fatto che, nella prima marcia da Roma a Monterosi, — paese dallo svergognato mentitore francese chiamato Monteroni - per la imprevidenza o dell’Intendenza militare, o dei comandanti, i quali non si fecero precedere dai forieri a preparare vettovaglie e foraggi, i volontari della prima spedizione giunsero colà a notte, stanchi ed affranti dal lungo cammino e non trovarono nulla di che ristorarsi e rifocillarsi «Affaticatisi li forieri e non forieri, il colonnello, i maggiori e tutti gli uffiziali onde provvedere del bisognevole; ma l’ora era tarda e la stanchezza ed il disagio molto, cosi che duravasi fatica a calmare il mal umore coltivato dalle grida di pochissimi, a cui patria e libertà parlavano meno forte, che appetito e lassezza. Come Dio volle acquietaronsi tutti, senza che avesse a lamentarsi un solo inconveniente». (Corrispondenza da Monterosi in data 26 marzo alla Pallade del 28 marzo, n. 203). E si noti che il corrispondente della Pallade era un uomo onorando e degno di ogni fede, e cioè il dottor Giuseppe Checchetelli, ufficiale nella legione volontaria romana e il quale, perciò, trovavasi sul posto e che era il direttore di quel giornale.
          Come si passassero le cose in quella circostanza e a che si riducessero effettivamente gli orrendi saccheggi e ladronecci di Monterosi, i lettori imparziali potranno vedere dagli otto documenti nuovi che io allego in fine di questo primo volume ai nn. 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23 e 24.
          Le concordi relazioni di uomini onorandi quali il generale Andrea Ferrari, l’intendente militare marchese F. A. Gualterio, il colonnello Del Grande e il maggiore Lombardi, scritte, lì per lì, senza che l’uno scrittore sapesse nulla di ciò che scrivesse l’altro, sono così evidenti e concludenti che, veramente, non abbisognano di lunghi e sottili commenti. I ladronecci e le rapine si riducono a lievissimi disordini, non scusabili soltanto ma legittimati ampiamente dalla mancanza di commestibili, di bevande, di ristori, e perfino dì paglia fresca e netta a cui si trovarono esposti, dopo venti miglia di marcia, — la prima marcia che i volontari facevano! — tutti quei giovani, che giungevano stanchi, affamati e assetati.
          Le pietose bugie onde la Magistratura municipale di Monterosi cerca