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86 | Chi l’ha detto? | [314-316] |
Ma questo è fuoco terreno; per il fuoco celeste ho in serbo un esametro celebre:
314. Eripuit cælo fulmen, sceptrumque tyrannis.1
composto da Turgot perchè fosse scolpito sotto un busto di Franklin, liberatore dell’America e inventore del parafulmine (cfr. Condorcet, Oeuvres complètes, Paris, 1804, V, p. 230); ma vi è evidente la reminiscenza di Manilio (Astronomicon, lib. I, v. 104)
e anche il movimento del verso è tolto dall’Antilucrezio del Cardinale De Polignac (1745, I, 96).
Il verso — che i Maltesi attribuiscono invece, senza fondate ragioni, ad un loro oscuro umanista, vissuto verso la fine del 700, certo Rigold — ma che è indubbiamente del Turgot, piacque a tutti tranne forse a Franklin che modestamente scriveva a Felice Nogaret: «Malgré mes expériences sur l’électricité, la foudre tombe toujours à notre nez et à notre barbe, et quant au tyran, nous avons été plus d’un million d’hommes occupés à lui arracher son sceptre.»
Piacque forse anche al nostro Monti che pochi anni dopo cantava:
315. Rapisti al ciel le folgori
Che debellate innante
Con tronche ali ti caddero
E ti lambîr le piante.
Dal fulmine alle nuvole è breve il passo; e per le nuvole facile soccorre l’ardita metafora del Carducci che le chiamò
316. Vacche del cielo.
La frase carducciana è nel Canto di marzo, una delle Odi barbare:
- ↑ 314. Strappò al cielo il fulmine, lo scettro ai tiranni.