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la poesia di catullo. 83

avea, come Teseo, discorsi altri lidi in cerca di gloria e d’amore? Fra i rumori della corrotta metropoli la voce della cara fanciulla gli torna qualche volta nel cuore; quando il nome d’Arianna gli vien sotto lo stilo, egli non può fare a meno di ricordarsi di lei; narra la storia di quell’illustre tradita, e gli par forse di pagare un tributo all’umile amica della sua giovinezza; la perfidia dell’Ateniese è la perfidia sua, ed egli vi si ferma con pietosa crudeltà.

In questa guisa la personalità del poeta non si può nascondere, vien sempre fuori alla prima occasione, il cuore gli guadagna sempre la mano.

Da questi esperimenti però, da questa ginnastica necessaria intorno ai modelli greci, Callimaco e Saffo segnatamente, il poeta esce più forte, più vigoroso, più padrone della sua frase e del suo pensiero. I Greci gli si trasfondono nel sangue, gli si assimilano, diventano sè stesso. Per la qual cosa, quando il suo fervido pensiero vuol farsi strada, egli non stenta a trovargli una veste conveniente, il suo pensiero è bello e vestito, vien fuori da sè e per sè, porta lo stampo dell’originalità; se non che, quand’esso è tenero e voluttuoso, tu senti attorno di lui come una mollezza d’aure e di profumi che ti ricorda il cielo di Lesbo e le rose di Cirene, e quando è splendido ed abbondante, ti fa pensare agli archi luminosi della reggia di Tolomeo. E di Callimaco, ch’egli imitò e tradusse, Catullo ritien talvolta i difetti. Quel gusto di ammucchiare accessorii e particolari attorno al soggetto, quell’importuno sciorinar d’erudizione, anche in un piccolo carme d’amore, gli tolgono qua e là quella natural freschezza, lo rendono pesante, ricercato