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la poesia di catullo. 79


Catullo scrive sotto la viva impressione del fatto; non è l’artista che riproduce, è l’uomo che sente, l’artista c’è, ma si sa nascondere, o, per dir meglio, si sa confondere con l’uomo; sono una sola persona. La qual cosa non avviene a Properzio, numerato ed artificioso fin nella passione; e meno anche ad Ovidio, che dilava l’impressione in un mare di ciarle; nè la verità è così viva in Tibullo che tu non ci vegga l’arte. Io non trovo poeta nè fra gli antichi nè fra’ moderni che superi, in questo, Catullo. Quello che gli si potrebbe paragonare è soltanto Enrico Heine.

È stato nelle braccia di Lesbia? ha bevuto negli sguardi e nel sorriso di lei tutto l’oblio della vita? Egli sfida gli uomini a chiamarsi più felici di lui:


Quis me uno vivit felicior, aut magis est me
Optandus vita, dicere quis poterli?1

Lesbia lo pospone ad un altro? Egli corre ai ginocchi del fortunato rivale, lo supplica di lasciargli l’amor suo, la sua vita, la luce degli occhi suoi.2 Non gli dà retta? La rabbia l’invade, prorompe contro lei, contro i rivali, contro tutti; dimentica d’essere gentiluomo, raccoglie a piene mani il fango della Suburra, e lo getta sulla faccia dei suoi nemici.3 La sua parola doventa uno sputo; il suo giambo uno schiaffo; è la rabbia che si fonde con lo scherno e qualche volta con la pietà; ride e piange al tempo istesso, odia ed ama4 nè sa

  1. Carm. CVII.
  2. Carm. LXXXII.
  3. Carm. XXXVII.
  4. Carm. LXXXV.