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70 la poesia di catullo.

guerra, che nel brando solo ripone ogni potenza, ogni gloria, ogni salute, non può aver mai quella piena, giovanile, direi quasi, ingenua e verginale fiducia nell’arte, che avevano i Greci, presso cui la bellezza era superiore perfino all’Areopago. Ma giudicare la storia letteraria d’un popolo senz’altro criterio che la storia d’un altro, a me pare assai balorda critica.

Quando i Romani erano ancora liberi e forti, essi non sentirono gran bisogno dell’arte. L’arte non nacque in Roma fra le titaniche lotte dei partiti, nel vigore della gioventù, per sovrabbondanza di vita, come fra noi al Trecento. L’arte nacque in Roma, quando la libertà era già vecchia: nacque colla scrofola. Non fu rigoglio di vita, ma frutto di stanchezza; non impulso naturale dell’anima, ma vaghezza di passatempo. La religione era un pretesto; l’arte un complemento. Volendo perciò studiare la poesia latina, non bisogna andare con idee preconcette, con Omero e Pindaro nella testa; bisogna prenderla così com’è: articolo di lusso. Ma come si fa a non pensare ai Greci studiando un’arte che tutta la ritrasse, la copiò, la scimmieggiò? Bisogna distinguere: ci sono poeti fra i Latini, che imitarono i Greci nell’anima e nella forma; e questi non hanno altra importanza che di stile; così Virgilio, divino verseggiatore. Altri sono però che imitando i Greci nella venustà della forma ritrassero i loro tempi, i loro costumi, la loro personalità: possiamo annoverare fra questi, Lucrezio, Catullo, Orazio, Giovenale e Tacito, grandissimo artista.