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di alcuni traduttori di catullo. 139

sensi in quell’oggetto, ch’è il dulce ridentem, doventano un senso solo; ed audire detto così senz’altro obietto che il te, appunto perchè più indefinito, è più bello, dice più di udire le tue parole, il tuo canto,

come tradusse il Foscolo, facendo piuttosto da interprete che da poeta.

Il Puccini non si dà pensiero di tutto questo, trascura e guasta ogni cosa. Quel talora del terzo verso, gettato là per brutta necessità di rima, non solamente rompe la continuità dell’impressione e della beatitudine dello spettatore, ma allontana l’impressione, la rende casuale, ed incerta, ora sì ed ora no.

Nè questo è tutto. Il buon Pistoiese non s’accorge, che, se Catullo poteva dire spectat et audit, perchè l’oggetto te dulce ridentem s’adatta benissimo ai due verbi, e riconcentra la parola e il sorriso nella persona che parla e sorride, non era permesso a lui il tradurre vede e ode il tuo bel riso, perchè il bel riso è il sorriso, e il sorriso non si ode, ma si vede, e se per avventura si ode, non è più quel lieto e venusto atteggiare delle labbra, degli occhi e di tutto il volto, ma piuttosto un cachinno; oltrechè il vedere non ha la forza dello spectare, ch’è guardare attentamente e con meraviglia, da cui venne spectaculum, che è tutto ciò che attira gli sguardi, e spectabilis, degno d’esser veduto, ragguardevole, mirabile.

Ma se per tutte queste ragioni la traduzione del Puccini non ci può contentare, essa non è a ogni modo da buttar là insieme a quelle di tanti altri, che hanno