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iii. ad angelo mai 17

i vetusti divini, a cui natura
parlò senza svelarsi, onde i riposi
55magnanimi allegrâr d’Atene e Roma.
Oh tempi, oh tempi avvolti
in sonno eterno! Allora anco immatura
la ruina d’Italia, anco sdegnosi
eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo
60piú faville rapía da questo suolo.

     Eran calde le tue ceneri sante,
non domito nemico
della fortuna, al cui sdegno e dolore
fu piú l’averno che la terra amico.
65L’averno: e qual non è parte migliore
di questa nostra? E le tue dolci corde
susurravano ancora
dal tocco di tua destra, o sfortunato
amante. Ahi! dal dolor comincia e nasce
70l’italo canto. E pur men grava e morde
il mal che n’addolora
del tedio che n’affoga. Oh te beato,
a cui fu vita il pianto! A noi le fasce
cinse il fastidio; a noi presso la culla
75immoto siede, e su la tomba, il nulla.

     Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
ligure ardita prole,
quand’oltre alle Colonne, ed oltre ai liti,
cui strider l’onde all’attuffar del sole
80parve udir su la sera, agl’infiniti2
flutti commesso, ritrovasti il raggio
del sol caduto, e il giorno
che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;
e, rotto di natura ogni contrasto,
85ignota immensa terra al tuo viaggio
fu gloria, e del ritorno