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disegno e nella musica, e seppe assai bene di lingua francese. La contessa Vittoria Carminati, sua vicina, autrice di versi non ineleganti, ne indovinò il genio e lo confortò e nutrì di buoni suggerimenti e feconde letture. Ma sebbene l’adolescenza di lei fosse tutta invasa e commossa dallo spirito di poesia, ella non si sognava di dovere in quest’arte fare cose mirabili e venire in fama.

A diciotto anni andò sposa al conte Paolo Brenzoni, fervidissimo amatore delle belle arti ed esperto nella pittura storica. «Era (dice il Messedaglia, sulle cui orme andiamo) un’alta donzella, svelta e castigata della persona, e di rara soavità di aspetto e di voce, invidiata per lo straordinario candore del viso, la perfetta venustà della mano e il volume magnifico delle sue chiome tra bionde e castagne, grave ne’ pensieri quanto semplice e schietta nei portamenti.» Le gioie di madre le furono non prima mostrate che tolte. Dopo un primo figlio, nato immaturo e vissuto un giorno, ebbe un bambino che visse ventun mesi. Ella non si consolò, ma si rassegnò; e in una visita fatta al collegio delle Peschiere in Genova disse con mesta umiltà: «Dio me li tolse forse perchè non avrei saputo bene educarli.»

Il suo istinto poetico cominciò a tentar le sue vie in rime, di cui essa non conosceva alla prima l’artificio e neppure il nome de’ vari metri. A poco a poco si rassicurò, e si aperse con alcuni suoi conoscenti. Fu animata allo studio della Divina Commedia, ed ella vi si pose con tanto ardore, e vi si compiacque tanto, che in breve la seppe tutta quanta.

Allo studio di Dante accoppiò la lettura di Omero nella versione del Monti, di Virgilio, che si doleva non poter gustare pienamente nell’originale, e dell’Ossian del Cesarotti.